Dopo undici anni di assenza, torna al Teatro di San Carlo di Napoli Salomè, dramma in un atto di Richard Strauss su libretto di Hedwig Lachmann, nello stesso riuscito allestimento per la regia di Manfred Schweigkofler.
L’opera di Strauss, a suo tempo considerata rivoluzionaria e scandalosa (ma non per questo meno fortunata, anzi!), ispirata all’omonimo poema di Oscar Wilde, divenne emblema dello spirito dei tempi: il soggetto di origine evangelica è, come nel testo wildiano, il pretesto per descrivere il crollo dell’idealismo romantico e l’avvento di una crisi di valori. Questa è accompagnata da una paura della modernità che si manifesta come riscoperta degli aspetti più terreni e carnali, quasi primordiali, di cui l’individuo non è nemmeno del tutto cosciente, finendo con l’esserne succube. Lo mostrano evidentemente le figure agli antipodi di Erode e Salomè: il primo, ebbro di ricchezze ed eccessi d’ogni tipo, è smanioso di nuove conquiste per soddisfare il suo insaziabile piacere, che gli provoca altresì malessere e febbrili visioni; la seconda, ragazzina viziata e vittima delle attenzioni del patrigno, è in cerca di conoscere se stessa e il mondo, bramando quel potere che ancora la sovrasta e che cerca di conquistare dapprima tentando invano di soggiogare Jochanaan, poi, questa volta riuscendoci, proprio il patrigno nella lunga scena della danza dei sette veli, cuore e snodo della vicenda. La musica di Strauss dà vita a tutto ciò, non solo accompagnando la voce ma costruendo quasi materialmente la scena e modellando l’azione e la psicologia dei personaggi, con la sua timbrica e sonorità cangiante e variopinta che plasma la matrice simbolista e decadente del testo originario.
Parimenti la regia di Manfred Schweigkofler cerca di restituire questa atmosfera mantenendo al contempo traccia dell’ambientazione originaria del dramma. Ciò viene fatto sia grazie ai bellissimi costumi di Daniela Ciancio, di vaga ispirazione mediorientale e con accessori realizzati con materiali e tessuti a basso impatto ambientale ed energetico (in accordo a una politica che il teatro sta iniziando a sperimentare nell’ambito dell’ecosostenibilità) sia nelle scene realizzate da Nicola Rubertelli. La scenografia, piuttosto essenziale, è dominata da una scalinata che occupa il centro della scena e che è sovrastata da un ampio specchio inclinato verso le assi al fine di aumentare la dinamicità dell’azione e di dare un tocco di colore in più, dato che il pavimento risulta riempito da un ampio disegno in colori pastello. I movimenti scenici si rivelano nel complesso efficaci e quasi mai troppo caricati (o peggio caricaturali), eccezion fatta nella quarta scena dove la comparsa e la scomparsa dei cinque giudei e due nazareni che si precipitano in scena in cima alla scalinata ogni qualvolta i protagonisti alludono a qualcosa che ha a che fare con loro, spezza un po’ la tensione drammatica a vantaggio di momenti quasi umoristici (la scena dei giudei che disquisiscono se e perché Jochanaan è o meno un profeta e se è arrivato o meno il Messia è effettivamente comica). Le transizioni tra le diverse scene e sezioni sono ben accompagnate dalle luci di Claudio Schmid. Interessante, infine, la trovata di affidare la danza dei sette veli non alla sola Salomè ma a un corpo di ballo di sette ballerine, per la coreografia di Valentina Versino, in modo da riempire il palcoscenico di una pervasiva sensualità tesa e trepidante, ma anche qui mai eccessivamente caricata.
Sul versante musicale l’orchestra del Teatro di San Carlo guidata dal suo direttore Dan Ettinger – al netto di un avvio un po’ titubante, non perfettamente a fuoco e dove sono apparsi lievi problemi di coesione, con un’interpretazione sì nervosa ma un po’ frenata e che ha omesso la carica espressiva delle prime pagine – dà una grande prova nel prosieguo dell’opera. La bacchetta del maestro Ettinger dirige molto bene la compagine orchestrale alla ricerca di un fraseggio e di una dinamica volta a tratteggiare dettagliatamente la psiche dei protagonisti e a dare volume a quanto visto sulla scena: si può dire che i personaggi si muovano all’interno della partitura così come tra le scenografie. Capace di librarsi lieve nei momenti per così dire più “lirici” (sebbene qui il lirismo non è certo da intendersi come quello che si trova ad esempio in un Verdi), le sezioni dell’orchestra sono in grado di trasmettere tutta la forza tellurica della musica nei momenti in cui gli ammonimenti di Jochanaan echeggiano duri dal pozzo sotterraneo nel quale era imprigionato, come se le sue parole fossero in grado di smuovere la terra sotto i piedi degli empi pagani. Il colore esotico e la lucentezza delle armonie, che tanto Strauss ha ricercato nella musica che ha scritto per questo lavoro, appaiono nitide e iridescenti nella lunga scena della danza.
Con qualche piccolo distinguo il cast vocale si rivela nel complesso di ottimo livello, a cominciare dal ruolo del titolo interpretato da Ricarda Merbeth. Il soprano tedesco, alla sua seconda Salomè, torna al San Carlo dopo aver interpretato nel settembre scorso l’altra eroina straussiana, Elektra. Come all’epoca, la Merbeth fornisce una prova ampiamente convincente in un ruolo decisamente impegnativo (è praticamente in scena dall’inizio alla fine del dramma). Assoluta protagonista delle scene principali dell’opera – dal duetto con Jochanaan in cui è la corteggiatrice rifiutata malamente, alla speculare scena con il patrigno in cui è lei a rifiutare le avances di Erode, per concludere, passando dalla scena della danza, allo sconvolgente finale – la cantante oltre a dare una ulteriore prova di controllo vocale (quasi sempre impeccabile per proiezione ed espressività) restituisce una Salomè delirante e accecata dal soddisfatto desiderio di dominio e possesso nella lunga scena in cui abbraccia e bacia la testa mozzata del profeta.
Notevole è anche la prova dell’Erode interpretato da Charles Workman. Il tenore statunitense, pur essendo al suo debutto in un ruolo anch’esso molto difficile e complicato, dimostra di padroneggiare bene sia la linea di canto sia la recitazione. La voce, sempre ben modulata e proiettata, non scade mai nell’eccesso e si mantiene perfettamente equilibrata così come i gesti, non scadendo mai nel grottesco o caricaturale (il che non è semplice) e rispettando così in pieno le indicazioni dell’autore.
Buona la prova di Lioba Braun nei panni di Erodiade. Per quanto in alcuni momenti sia apparsa lievemente in difficoltà nell’emissione, il mezzosoprano tedesco ha dato vita a un personaggio molto ben delineato: la sua insofferenza nei confronti del marito, l’odio nei confronti di Jochanaan e anche una qual certa soggezione della figlia sono stati resi in modo davvero convincente.
Bravissimo è poi Brian Mulligan nei panni di un Jochanaan ieratico e severo. Il baritono irlandese-americano ha dato un’ottima prova anche con la sua voce ben impostata, sempre ben proiettata e potente, sia nei (pochi) momenti sulla scena, sia quando i suoi ammonimenti arrivavano dalla cisterna sotterranea, ossia da sotto il palco (sebbene in questo caso l’uso dell’amplificazione abbia aiutato).
Una menzione speciale va a John Findon, il tenore britannico, con voce limpida e ben sostenuta, ha dato vita a Narraboth, il capitano delle guardie protagonista nella prima scena, ha avuto il compito di dare l’avvio al dramma. Lo ha fatto molto bene, portando a casa un’ottima prova sotto ogni aspetto. Accanto a lui nel principio della prima scena la brava Štěpánka Pučálková nel ruolo del paggio di Erodiade.
Completano degnamente il cast Gregory Bonfatti, Kristofer Lundin, Sun Tianxuefei, Dan Karlström, Stanislav Vorobyov, Liam James Karai, Žilvinas Miškinis, a loro modo anche divertenti nei panni rispettivamente dei cinque giudei e dei due nazareni, e Alessandro Abis, Artur Janda, Giacomo Mercaldo, Vasco Maria Vagnoli nei ruoli rispettivamente di primo e secondo soldato, un uomo della cappadocia e uno schiavo.
La macabra scena finale della follia di Salomè e la sua conseguente morte su ordine di un Erode orripilato è stata di grande impatto e non ha lasciato indifferente il pubblico che, rimasto inevitabilmente colpito, alla chiusura del sipario si è lasciato andare a timidi applausi quasi di circostanza, segno che quest’opera oggi come allora continua a scioccare lo spettatore (o almeno mi piace pensare che sia così).