È sempre un piacere ritrovare allestimenti che nel loro essere ben concepiti in origine non perdono smalto anche a distanza di anni. Torna sul palco del Piermarini la Tosca a firma di Davide Livermore – qui ripresa da Alessandra Premoli – che inaugurò con successo la stagione 2019/2020, riconfermandosi pregnante nella sua coerenza drammaturgica e potente nella sua matrice cinematografica, cifra stilistica del regista milanese. E non parliamo del fatto che fosse stata allora concepita per le riprese televisive della Primissima, ma dell’approccio teatrale di fatto costruito come guardando attraverso una macchina da presa: movimenti di scena fluidi, cambi prospettici continui, scenografie in perenne trasformazione che inseguono la drammaturgia musicale con precisione chirurgica. La regia si muove assecondando in ogni istante la partitura pucciniana, con una struttura musicale che già racchiude in sé un’anima sequenziale assimilabile allo storyboard: azioni, intenzioni e stati d’animo sono scolpiti nelle pieghe dell’orchestrazione, e la regia ne asseconda il flusso con soluzioni sceniche di grande impatto.
Lo spettacolo procede come un racconto per immagini, in cui lo spettatore è guidato attraverso angolazioni e “inquadrature” diverse: una macchina teatrale in continuo movimento che offre molteplici punti di vista, come se ogni scena fosse filmata in presa diretta. Memorabile il finale, con Tosca seguita passo dopo passo nel gesto estremo: il suo corpo si libra e si contorce in un volo sospeso, come in un rallenty tragico che lascia spazio a interpretazioni ambigue tra caduta e trascendenza.
L’impianto scenico, firmato Giò Forma, mantiene una coerenza storica con la Roma dell’Ottocento, pur affidandosi a scelte visive dal forte impatto: ambienti monumentali, dominati da tinte plumbee, ora squarciate dall’oro degli altari, ora rischiarate dal riflesso marmoreo delle architetture. I video di D-Wok contribuiscono in modo funzionale e discreto, animando con inquietudine le grandi tele a olio nello studio di Scarpia o disegnando il cielo cupo sul quale si staglia l’ala minacciosa di Castel Sant’Angelo.
Decisivo anche il disegno luci di Antonio Castro, che isola Scarpia con tagli netti, spot teatrali e improvvisi bagliori in grado di battezzarlo come sorta figura satanica e perno oscuro dell’intera vicenda. I costumi di Gianluca Falaschi completano il quadro con scelte simboliche: il rosso e il celeste di Tosca richiamano passione e purezza, Scarpia e i suoi uomini indossano lunghi cappotti in pelle nera sporcati di porpora, quasi un’armatura del potere corrotto.
Un allestimento completo e suggestivo, apprezzabile oggi come sei anni fa, raffinato nella sua teatralità quasi filmica in un perfetto equilibrio tra tradizione, innovazione e soprattutto chiarezza di visione.
Ottima anche la resa musicale di questa ripresa, in cui il testimone del podio passa dal Maestro Riccardo Chailly alla bacchetta di Michele Gamba, che se la cava più che dignitosamente. La sua lettura orchestrale è intrisa di tensione teatrale, con un equilibrio riuscito tra sensualità e struggimento, senza mai eccedere nella retorica. Gli archi accompagnano con dolcezza i duetti amorosi, mentre nel “Te Deum” l’Orchestra si veste efficacemente di toni sacrali e imponenti. Particolarmente riuscito il clima cupo e incalzante della scena tra Tosca e Scarpia, con asprezze sonore che rendono perfettamente l’atrocità dello scontro tra due opposti: la brutalità del potere e della violenza che si contrappone al dramma umano e spirituale della protagonista.
In grande spolvero il cast alternativo che abbiamo avuto il piacere di ascoltare in questa replica.
Elena Stikhina affronta il ruolo di Tosca forte di un timbro morbido e sensuale, con buona omogeneità tra i registri e disinvolta sicurezza in acuto, anche se il soprano dà sovente l’impressione di uno scarso approfondimento psicologico del personaggio che inficia una prova vocale nel complesso maiuscola. La linea di canto è curata, ma il fraseggio appare poco incisivo e l’interpretazione tende a restare in superficie. Il celebre “Vissi d’arte” convince per proiezione e controllo, strappando meritati applausi, ma anch’esso manca di quella progressione drammatica che dovrebbe accompagnare la metamorfosi emotiva della protagonista.
Discorso analogo per il Mario di Fabio Sartori, solido vocalmente ma con qualche limite espressivo a livello musicale e scenico. Lo strumento come sappiamo è poderoso e in grado di cesellare ogni aria con slancio, audacia e debordante volume, ma il fronte interpretativo resta piuttosto opaco e poco modellato. Più efficace dunque nelle sfumature del Cavaradossi fiero e idealista, meno a fuoco sul lato emotivo e amoroso.
Imponendosi con vocalità autorevole e – al contrario dei colleghi – un fraseggio ricchissimo di sfumature, tra i solisti spicca senz’altro Amartuvshin Enkhbat, offrendo uno Scarpia di grande solidità e carisma. Il timbro scuro e ben proiettato, l’emissione sempre controllata e una linea di canto sorvegliata gli consentono di affrontare il ruolo con sicurezza e intensità, senza mai scadere in enfasi esagitate. Gli acuti sono saldi, ma ciò che colpisce maggiormente è l’intenzione scenica precisa e ben dosata con cui scolpisce ogni accento. Sin dal suo ingresso – solenne, cinematografico come il taglio dell’allestimento – appare già avvolto da un’aura demoniaca, senza mai tuttavia perdere quel tratto aristocratico, altezzoso e controllato da barone di razza. Il contrasto tra il suo aplomb da gran signore e il desiderio carnale che esprime verso Tosca è reso con intelligenza, lasciando che siano la parola e l’intenzione a svelare la mostruosità del personaggio, più che l’eccesso gestuale o declamato.
Bene anche i comprimari: il vivace Sagrestano di Marco Filippo Romano, il preciso Spoletta di Carlo Bosi, l’energico Angelotti di Huanhong Li. Buone anche le prove di Costantino Finucci (Sciarrone) e Xhieldo Hyseni (carceriere). Graziosa e spontanea Cecilia Menegatti nel breve ma efficace intervento del pastorello.
Eccellente e maestoso il Coro (istruito da Alberto Malazzi), che del “Te Deum” restituisce un’esecuzione sublime.
Al termine il pubblico tributa calorosi applausi a tutti gli interpreti, con punte di entusiasmo per Enkhbat e Gamba. Qualche perplessità si è avvertita, seppur sommessa, nei confronti di Stikhina e Sartori, comunque acclamati nell’apprezzamento generale della platea.