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Giuli: Cantare l’inno d’Italia? In tanti lo fanno gratis

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Il ministro Alessandro Giuli agli artisti del coro del Gran Teatro La Fenice di Venezia: è desolante chiedere soldi per intonare l’inno, molti lo farebbero gratis.

Si è parecchio discusso sul diniego degli artisti del coro del Massimo teatro veneziano di intonare l’inno nazionale in occasione della festa della Repubblica, a soli 35 euro per due giorni a ciascun partecipante. Il ministro ritiene che gli artisti del coro avrebbero dovuto essere onorati di prender parte ad una circostanza tanto importante. Spiace dover nuovamente qui precisare che far musica, lungi dall’essere una mera passione, implica dedizione, disciplina, interminabili ore di lavoro, studio e, spesso, rinunce a gran parte della propria vita personale. Si potrebbe sostenere che chi ha intrapreso la strada della musica l’abbia fatto per scelta, ma non è forse qualsiasi altra attività lavorativa frutto di una scelta? Ci si chiede con rammarico perché i lavoratori dello spettacolo debbano, nel paese del Belcanto, essere considerati dei dilettanti, musicisti per mero divertissement, non certo per professione e non meritevoli di vedersi riconosciuti un adeguato compenso. Contrariamente a quanto affermato dal ministro, il quale peraltro è stato chiamato a rappresentare e difendere la nostra cultura, l’alto impegno istituzionale al quale gli artisti del coro erano stati chiamati avrebbe dovuto indiscutibilmente presupporre una retribuzione degna dell’impegno profuso da un coro come quello della Fenice di Venezia, tra i teatri più belli e di eccellenza di cui l’Italia può far vanto.

La diffusa, sgradevole e errata convinzione che fare arte non implichi impegno sfortunatamente serpeggia in tante famiglie italiane, che tale messaggio sia legittimato anche dalla politica è intollerabile disvalore. Chiunque lavori con l’arte e la rispetti dovrebbe dissociarsi con forza da quanto affermato dal ministro Giuli al quale, per inciso, sarebbe interessante chiedere quale sarà il destino di Villa Verdi, malgrado promesse e vuota retorica con hashtag sui social recitanti: Salviamo villa Verdi! D’altronde, a questa triste consuetudine l’italico suolo è da tempo immemore avvezzo. Frasi afferenti agli artisti che fanno divertire, o alla cultura con la quale non si mangia sono state pronunciate da politici chiamati a gestire la nostra Res Publica.

Andare all’Opera in Italia è spesso uno status, un dovere istituzionale, un’occasione in cui, pur se nel tempio della grande musica, essa non è altro che un diadema, un abbellimento depauperato del suo più profondo e intrinseco significato.

Se si volesse comprendere il perché ciò sistematicamente accada si dovrebbe responsabilizzare la scuola di ciascun ordine e grado. A eccezion fatta di una ben nota città italiana, non è generale consuetudine impartire ai nostri studenti lezioni di storia della musica fin dall’infanzia. Per contro, nei paesi germanofoni è assai raro trovare esponenti della giovane generazione che non abbiano sentito nominare almeno una volta Franz Schubert, Ludwig van Beethoven, Richard Wagner o Robert Schumann; nel nostro amato bel paese duole constatare una totalme mancanza di conoscenza dello stesso Giuseppe Verdi, figurarsi che accadrebbe al cospetto di numi come Gaetano Donizetti o Vincenzo Bellini. L’iter di scuola media contempla l’ora di musica, spazio ritenuto per lo più di svago e divertimento. Per molti far musica vuol dire suonare alla meglio il flauto dolce e fare solfeggio parlato. Di introduzione alla teoria musicale con scale e riconoscimento degli intervalli non si parla nemmeno, perché la scuola non è certo un conservatorio, considerazione amaramente ironica. Sono pochi inoltre i manuali di letteratura italiana dove viene dato il giusto spazio alla librettistica e all’imprescindibile rapporto col testo musicale, come se il melodramma non fosse stato organico e funzionale alla società e agli eventi caratterizzanti i secoli passati. Gran considerazione viene invece data alle arti figurative. Difficile comprendere il perché di tale discrepanza di trattamento.

Solo con una corretta e approfondita divulgazione della lirica nelle scuole si potrebbe assistere ad un’inversione di tendenza. È noto come i giovanissimi allievi delle scuole elementari italiane reagiscano con entusiasmo ad una rappresentazione delle opere in forma ridotta. Nel 2018, in occasione dell’apertura della stagione scaligera con l’Attila, tantissime erano le ragazze al di sotto dei trent’anni conquistate dalla pugnace Odabella, la deuteragonista che decide di passare all’azione uccidendo il re degli Unni.

Far musica merita considerazione e rispetto, lo dobbiamo all’Italia, alla “patria” cantata, tanto per rimanere in tema, da Foresto nell’attila verdiano, una patria già madre e regina, la quale, “qual Fenice novella”, risorgerà più superba e più bella.

Paola Labarile

Vestale della lirica fin dall’infanzia, essa è stata per me una vocazione che ha guidato la mia intera esistenza. Al termine della laurea triennale e magistrale in lettere classiche ho deciso di dedicare entrambe le mie tesi a figure come quella di Attila e norma. Mi sono successivamente laureata alla magistrale in musicologia sotto la guida del prof Fabrizio Della Seta. Stella cometa e guida verso il mio secondo percorso universitario è stata La Barcaccia, trasmissione in onda quotidianamente su Rai Radio3, con la sua rubrica Aria al microscopio. Il maestro Enrico Stinchelli è da sempre stato per me linfa vitale per le mie competenze. Come l’eccelsa Maria Callas si è nutrita delle competenze del maestro Serafin, io faccio lo stesso con quelle del maestro Stinchelli. La lirica per me è rifugio e vita. A questo immenso patrimonio spero di consacrare la mia vita in veste di professionista.

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