È un lontano ma ancora potente ricordo quella sera d’inaugurazione ambrosiana del 7 dicembre 1980 al Teatro alla Scala: quarantacinque anni sono passati da quel Falstaff verdiano con la direzione di Lorin Maazel e la regia di Giorgio Strehler. I loggionisti più conservatori, nella lunghissima e sfiancante coda per gli ingressi, storcevano in anticipo i nasi per l’annunciata ambientazione di questo supremo lavoro verdiano tra le assolate cascine della Pianura padana anziché fra le nordiche brume di Winsor. E chi oggi dirige l’opera, Daniele Gatti, in una commossa intervista ha raccontato – come semplice studente presso il Conservatorio di Milano – la stessa trepidante coda per l’ingresso alla prima e seconda galleria, con la prospettiva di ascoltare questo Falstaff implacabilmente in piedi (quant’è bella giovinezza che se lo poteva permettere!). S’aspettava soprattutto la prova di un sapiente orchestratore come Maazel e quella del baritono Juan Pons che nessuno aveva mai sentito nominare, soprattutto Mirella Freni debuttante come Alice Ford, che i più anziani habitué scaligeri rievocavano con l’altezzosità dell’«io c’ero!» nel ruolo giovanile di Nannetta in una lontana stagione precedente. Dopo questa ripresa dello spettacolo, si può oggi confermare che fu un azzardo geniale da parte del regista Giorgio Strehler, con la complice visionarietà dello scenografo e costumista Ezio Frigerio, quello di collocare le vicende tragicomiche di Falstaff nei bassi orizzonti d’una Emilia affacciata sulle rive del Po. Il tutto nell’arco di una giornata d’un radente controluce estivo e nella seguente notte illuminata da un’enorme luna piena, nelle fogge d’abito d’un inizio Seicento shakespeariano in terra di Lambrusco e nell’immutabilità del mondo contadino che percepisce lo scorrere del tempo solo come avvicendarsi ciclico delle stagioni. Ho sempre pensato che non si possa capire fino in fondo la musica di Verdi senza percorrere, obbligatoriamente a piedi, quel paio di chilometri di stradina fangosa che dal borgo di poche case di Roncole, dove era nato il compositore figlio del padrone della locale osteria, raggiunge il Santuario della Madonna dei Prati. Afosa d’estate e gelida d’inverno, la chiamava la pianuraccia: una piatta campagna disegnata dai filari di pioppi, dove la terra coltivata è protagonista assoluta, negli scuri colori delle zolle ritorte dall’aratura, o in quelli brillanti del verde primaverile oppure ancora nei gialli accesi dei mesi più caldi. Con le prime conoscenze all’organo della musica liturgica, il piccolo Giuseppe si spostava quasi quotidianamente lungo questa stradina silenziosa per accompagnare le celebrazioni, dalla chiesa di San Michele di Roncole fino al Santuario e viceversa. L’avvolgente potenza d’una terra così aspra, austera e cangiante impone solida capacità nel percepire la realtà, insegna giorno dopo giorno a dare concretezza al vivere: piedi ben piantati per terra e occhi rivolti al cielo. Le più alte composizioni verdiane, nella loro trasformazione miracolosa in teatro musicale, riescono ancora oggi ad appassionare proprio in virtù dell’interiore unità di questo sorgivo istinto morale, privilegio di chi fin da bambino ha saputo percepire il credo della musica come eterno respiro della Natura rispetto alla piccolezza degli uomini e come sintesi drammaturgica perfetta, riflesso dei più umani sentimenti ed emozioni: l’odio e l’amore, la sofferenza e la gioia, la crudeltà e lo slancio generoso, il disincanto e la meraviglia, le passioni che tutti conoscono. In questo senso, è stata perfettamente legittima la scelta di Giorgio Strehler di mettere in scena un Falstaff padano, dove l’ambientazione si lega a un paesaggio rurale che appare simile a quello tra Busseto e Sant’Agata, così amato da Verdi, e si fa solido e al contempo immaginario spazio della sua terrigna radice popolare: un’intima religione naturale, forse l’unica sua fede. La scenografia dell’Osteria della Giarrettiera ritorna nei primi due atti più come una cantina rurale dall’imponente muro a graticcio di mattoni che un interno di locanda, con botti gigantesche che sembrano evocare il “ribollir dei tini” e “l’aspro odor dei vini” di carducciana memoria. Le scene all’aperto invece rammentano la corte d’una tipica cascina lombardo-emiliana, col suo aperto spazio centrale dell’aia e i porticati rustici in scuro laterizio ai lati, le alte tettoie spioventi, le stalle e i fienili in lontananza. I problemi di questo Falstaff nascono però dall’impossibile riallestimento senza la presenza carismatica (meglio dire dittatoriale) di Strehler, nel tentativo seppur filologico di ricostruzione della regia da parte di Marina Bianchi. Basta infatti vedere su Youtube la ripresa televisiva della RAI del 1980 per mettere a fuoco lo straordinario congegno ad orologeria allestito dal grande regista nei movimenti e nei gesti dei cantanti in ogni scena di gruppo oppure negli assoli, come nei rigorosi e vivaci spostamenti del coro. Oggi, ciascuno del cast sembra andare un po’ per conto proprio e di rado si verifica la necessaria e sodale fusione scenica tra i personaggi imposta da questa complessa partitura che Strehler aveva così meravigliosamente trasformato in puro teatro.
L’impegnativo ruolo protagonistico è stato affidato ad Ambrogio Maestri. Diffuso luogo comune era che il baritono non interpretava Falstaff ma era Falstaff: con più di trecento rappresentazioni all’attivo, da più di vent’anni conteso da tutti i più importanti palcoscenici e oggetto di un vero culto da superstar fra i melomani di tutto il mondo. Dispiace dire che oggi la sua voce è l’ombra di quella che in passato ci ha abituato ad ascoltare. Più che cantare, sembra declamare la parte con un timbro appannato e un’emissione spesso ostica, difficoltà nella salita alla zona acuta, mezzevoci che quasi non si sentono e falsetto inascoltabile come nell’evocazione dell’acciuga da pagare al taverniere o nell’esclamazione vanagloriosa dell’io son di Sir John Falstaff. Se il rotondo physique du rôle si dimostra ancora intatto, la recitazione appare poco empatica, straniata, quasi distratta: eppure nel Falstaff aveva debuttato alla Scala nel 2001 diretto da Riccardo Muti e proprio in una delle tante riprese di quest’edizione strehleriana! Tuttavia, complice il suo lungo e simbiotico rapporto con Falstaff, riesce comunque a comunicare alla fine i momenti di disillusa malinconia del personaggio e un arrendersi vigoroso alla finitezza della vita.
Per quanto riguarda la performance nel personaggio di Ford di Luca Micheletti, mi sento di ribadire quanto scritto alcuni mesi fa in occasione del suo eccellente Jago nell’Otello verdiano alla Fenice: prendete uno straordinario baritono dal bel timbro brunito, capace di mezzevoci e di fraseggio molto espressivo; poi, un puro attore che ha modellato egregiamente tanti personaggi sui palcoscenici non solo operistici ma di prosa, con prestigiosi riconoscimenti come il Premio Ubu (2011) e il Premio Internazionale Pirandello (2015); ancora, un intelligente regista teatrale che ben conosce e mette a frutto i modi e i tempi della scena; in più, un efficace scrittore di romanzi (Tutta la felicità, ed. Sedizioni, 2015), traduttore e adattatore drammaturgico. Ecco, avrete Luca Micheletti. Se Maestri ha interpretato per la prima volta il ruolo di Sir John a trentuno anni non si vede perché non si sia pensato l’azzardo di far debuttare come protagonista in questa edizione Micheletti, che di anni ne ha trentacinque. Nel ruolo altrettanto arduo ma meno ricco di sfumature di Ford è stato comunque il migliore fra tutti sul palcoscenico, insieme al Dottor Cajus di lusso di Antonino Siragusa. Dal bel timbro scuro e con facilità nella salita all’acuto, mostra sempre un fraseggio molto espressivo e, nel monologo delle corna, evidenzia più il tono introspettivo dello sbigottimento che la solita tonitruante e rabbiosa collera della parte. Non ultimo, giganteggia in modo carismatico da attore anche abituato al palcoscenico della prosa, come nella furia vorticosa del marito convinto d’essere stato tradito o nella grande scena conclusiva.
Si diceva dell’ottimo Dott. Cajus di Antonino Siragusa, e anche qui si sarebbe potuto pensare a lui come Fenton visto il suo repertorio in importanti teatri italiani e internazionali, anziché il più debole Juan Francisco Gatell. Voce potente, bel timbro, squillo rilevante e presenza scenica da gran protagonista in un ruolo importante ma che non permette troppe sfumature interpretative, sostanzialmente “di carattere”.
Il Fenton di Juan Francisco Gatell è più che plausibile come personaggio dall’aura giovanile e svagata, ma la voce a volte non supera il volume sonoro dell’orchestra. Performance tutto sommato corretta dall’inizio alla fine, ma nel temibile Dal labbro il canto estasiato vola s’è rimasti in tensione d’ascolto su problemi d’intonazione da un momento all’altro, cosa che comunque non è avvenuta.
Rosa Feola passa dalla Nannetta cantata in forma di concerto nel 2016 e diretta da Riccardo Muti con la sua Chicago Symphony Orchestra e poi nel secondo cast dell’edizione scaligera diretta da Zubin Mehta del 2017 al protagonismo d’Alice Ford di questo Falstaff. Voce sopranile che negli anni ha acquistato corposità e brillantezza di timbro anche se la parte non presenta momenti di quel virtuosismo in acuto che negli ultimi anni l’ha resa famosa. Svetta comunque nel difficile Gaie comari di Windsor con un conclusivo e perfetto vocalizzo, dove Verdi cita non senza ironia le fioriture di passate sue cabalette sopranili. Recitazione adeguata anche se, come detto, a volte piuttosto disorientata come quella di tutti a causa della debole riedizione senza il carisma strehleriano. Eppure in scena ha dimostrato di far faville, come nella sua splendida Norina del Don Pasquale scaligero diretto da Riccardo Chailly con la regia di David Livermore.
Nannetta è Rosalia Cid, perfetta presenza scenica d’amorosa adolescente con voce omogenea, duttile e luminosa. E nel terzo atto esprime in un sospeso incanto il suono azzurrino dei due soavi couplets Sul fil d’un soffio etesio e Erriam sotto la luna, sostenuti dal doppio refrain La selva dorme e Moviamo ad una ad una dell’ottimo coro femminile delle fate diretto da Alberto Malazzi.
Marianna Pizzolato è una divertente Mrs. Quickly, dal bel timbro scuro che abbiamo conosciuto nei suoi ruoli rossiniani a Pesaro come su altri palcoscenici e l’ha dimostrato nell’andante Giunta all’Albergo della Giarrettiera con la naturale emissione da vero contralto dei due temibili sol basso sulla parola donna.
Martina Belli dona alla comare Meg Page l’avvenenza scenica che le spetta e una buona resa vocale.
Il Bardolfo di Christian Collia e il Pistola di Marco Spotti sono risultati corretti nel fraseggio anche se spesso, come nel caso di Gatell, non mostravano una voce che riusciva ad andare oltre il suono orchestrale.
Daniele Gatti aveva già diretto alla Scala quest’opera nel 2015 con la straordinaria regia di Robert Carsen e un bravo Nicola Alaimo protagonista. Ha diretto quest’opera verdiana molte volte e non ha bisogno di nessuna partitura aperta sul leggìo. Si sente da subito una tensione a rallentarne il ritmo per evidente volontà di scoprire nuove possibilità interpretative, e l’orchestra si fa condurre con un feeling partecipato e complice (dopo il fecondo “periodo-Chailly”, s’annuncia infatti il “periodo-Gatti” come direttore musicale del Teatro alla Scala e come direttore principale della Filarmonica). Una sapiente interpretazione che fa da collante al poco affiatamento dei cantanti sul palcoscenico e raggiunge i suoi vertici nell’evidenziare i molti tocchi strumentali che in quest’opera, più di altre, può permettere. Per fare solo qualche esempio, nell’ironica soavità degli archi e dei legni che accompagnano il tronfio ingresso Eccomi qua. Son pronto di Falstaff in abbigliamento d’attempato seduttore; nel vorticare degli scarti agogici tra l’agitatissima irruzione di Ford e compari con il con il seguente sincopato complotto del Se t’acciuffo (…) Se t’acceffo e il gentile tempo di danza del duettino tra Fenton e Nannetta nascosti dal paravento; nella sospesa soavità musicale d’ogni sezione dell’orchestra nella scena delle fate; nella trascinante fuga finale dove Tutto il mondo è burla e siamo Tutti gabbati, con lenta e implacabile accensione delle luci in sala che finisce per far svanire la quarta parete teatrale e quindi ogni differenza tra spettatori, cantanti e coro. Ultime note scritte da Giuseppe Verdi quasi alla fine della sua lunga esistenza e testamento spirituale, con la ripetuta Risata finale simile a quella di un’altra grande anima transitata su questa terra, Rembrandt: l’ultimo suo dipinto prima della morte è un autoritratto che ci guarda fissi in una terminale e sgangherata risata finale. Recensendo l’opera in una critica del 1940, Alberto Savinio aveva scritto: “(…) la voce più sconsolata che abbia mai echeggiato al nostro orecchio; e ci vuole un cuore di bronzo, una mente d’acciaio per abbandonarsi al flusso ininterrotto e senza ritorno del Falstaff, vedere i nostri affetti allontanarsi, le nostre idee, le nostre speranze, i nostri convincimenti più fermi, noi stessi diventare sempre più piccoli, ridursi a un puntino minuscolo, sparire”.