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Milano, Teatro alla Scala: Norma

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Norma debuttò il 26 dicembre del 1831 al Teatro alla Scala inaugurando la nuova stagione di Carnevale. Vincenzo Bellini era molto celebre in città, soprattutto perché reduce dal grande successo de La Sonnambula nell’altro teatro, quello della nobile famiglia Carcano, appena dieci mesi prima. Tutto presagiva un trionfo anche grazie alla presenza della primadonna assoluta Giuditta Pasta che avrebbe interpretato l’impegnativo ruolo protagonistico. Inoltre, dalle recensioni delle gazzette teatrali in arrivo da Parigi, negli eruditi salotti milanesi tra la Corsia del Giardino e la contrada del Cappuccio già si discuteva della tragica vicenda di Norma. Felice Romani stava infatti traendo il libretto dell’opera dall’acclamata tragedia in cinque atti di Alexandre Soumet Norma ou l’infanticide, messa in scena al Théâtre de l’Odéon il 6 aprile dello stesso anno. Peraltro, questa Norma aveva in cartellone un cast d’assoluta eccellenza: oltre a Giuditta Pasta, il celebre tenore Domenico Donzelli nel ruolo di Pollione, Giulia Grisi in quello di Adalgisa e il basso Vincenzo Negrini come Oroveso. Clamoroso fu invece il “fiasco” della prima serata, con grande sconforto di Bellini che ricercava le cause dell’insuccesso in un’indisposizione della Pasta, nello sfinimento vocale degli altri interpreti dopo un intero mese di massacranti prove e in un’avversa claque di fanatici del suo rivale Giovanni Pacini. Le circostanze di questa sfortunata prima, come per Il Barbiere di Siviglia molto contestato al debutto, viene sempre ribadito in ogni testo di storia dell’Opera italiana per comprovare che i fischi e i buuu alla prima non pregiudicarono la sua successiva affermazione: Norma, già dalla seconda rappresentazione e per trentatré repliche, avrà infatti uno progressivo successo di pubblico e di critica, tanto da diventare un ruolo favorito dalle più celebrate primedonne, da Maria Malibran a Giulia Grisi, da Jenny Lind a Lilli Lehmann, da Rosa Ponselle a Maria Callas. Ed è proprio l’ingombrante fantasma di quest’ultima Divina che sembra aggirarsi senza requie sul palcoscenico del Piermarini, perlomeno nelle polverose rimembranze dei pochi superstiti “vedovi della Callas” che da novantenni si trascinano a fatica nelle cavità dei loggioni scaligeri. Vetuste e inarrivabili memorie dei tempi gloriosi del suo debutto in Norma nel 1952 e nella ripresa del 1955, e fu concesso soltanto all’incontestabile magistero vocale di Montserrat Caballé di reinterpretare – bontà loro – una Norma diretta da Gianandrea Gavazzeni nel 1977. Nonostante in altri teatri quest’opera sia nel consueto repertorio, alla Scala abbiamo dunque dovuto attendere quasi cinquant’anni per poterla riascoltare, questa volta con la direzione di Fabio Luisi e la regia di Olivier Py.

A sipario chiuso, ci si chiede non senza costernazione come sia possibile che il più importante teatro d’opera del mondo, dopo quasi mezzo secolo e soprattutto sul palcoscenico dove Norma nel 1831 ha visto il suo debutto, possa mettere in produzione una messinscena talmente fallimentare! E tutto questo nonostante Olivier Py sia uno dei più celebrati registi d’opera, dimostrato peraltro con la splendida Thaïs di appena tre anni fa. In stretta collaborazione con Pierre-André Weitz nella duplice mansione di scenografo e costumista e con il lighting designer Bertrand Killy, il regista ambienta tutta l’opera in epoca pre-risorgimentale, con cantanti e coro in abiti ottocenteschi. Su un monumentale impianto girevole, s’erge l’imponente facciata del Teatro alla Scala disegnata come un vassoio Fornasetti, con la protagonista che – dimenticati i sacri paramenti di sacerdotessa druidica – si trasforma in un’acclamata diva teatrale di prima metà Ottocento, in procinto d’interpretare il ruolo di Medea (se d’Euripide, Corneille, Rameau, Cherubini o altri ancora non è dato sapere). Del resto, i personaggi di Norma e di Medea hanno molti tratti comuni, nonostante l’infanticidio non sia stato contemplato da Vincenzo Bellini e Felice Romani. Nel confuso sovrapporsi delle forzate ideazioni sceniche risorgimentali, il personaggio di Norma sembra citare la contessa Livia Serpieri del racconto Senso di Camillo Boito, poi tramutato da Luchino Visconti in uno dei suoi più memorabili film: una dama dell’alta società veneziana che parteggia in segreto per i patrioti dell’unità italiana fino a quando non perde la testa per un ufficiale dell’esercito austriaco precipitando in una travolgente quanto autodistruttiva relazione. Si possono forse trovare punti di contatto con la travagliata storia d’amore tra Norma e il proconsole romano Pollione, principale oppressore dei Druidi, soprattutto nel conflitto di lei tra senso del dovere nei confronti della sua gente e irrinunciabile passione amorosa. Ma, per dar contesto storico al tutto, l’overture – che nel suo splendore musicale sarebbe meglio ascoltare a sipario chiuso – viene animata da una successione di scene concitate, con sventolìo orgoglioso di un’italica bandiera, arresto del patriota in rossa camicia garibaldina per merito di ballerini in uniforme austriaca – in una coreografia di Ivo Bauchiero che ci poteva anche essere risparmiata – e fucilazione finale del reo rivoluzionario, con Oroveso nelle fattezze di Giuseppe Mazzini che copre il cadavere con la stessa bandiera. Ma non è finita: appare un figurante come simulata Norma che va a scrivere “Medea” sullo specchio da camerino teatrale, come a rivelarci in termini di metateatro che Adalgisa non è solo sua rivale per quanto riguarda Pollione ma anche Glauce che le ha portato via il suo bel Giasone, e persino il soprano Giulia Grisi che – Adalgisa alla prima dell’opera nel 1831 – porterà via a Giuditta Pasta il title role. Insomma, una macchinosa e caotica mise-en-abîme per nulla efficace e alquanto disturbante perché – nel tentativo di decifrare le continue “trovate” registiche – si perde sempre qualcosa dell’interpretazione musicale. Un susseguirsi pirotecnico d’intuizioni visive che tergiversano fra loro e il più delle volte lasciano il tempo che trovano, come nel duetto tra Norma e Adalgisa dove la Primadonna che interpreta Medea e l’aspirante Primadonna sono sedute ai rispettivi specchi da camerino con vestizione in due analoghe robe de chambre dorate, velata citazione del film All about Eve di Joseph L. Mankiewicz: da un lato, la grande tragedienne Bette Davis dai nervi sempre a fior di pelle e dall’altro la sua tuttofare Anne Baxter, finta umile e ambiziosissima, che non vede l’ora di scalzare la Diva dal suo trionfale trono di celebrità. Poi, imperdonabile il disturbo visivo dell’invadente presenza di figuranti neanche tanto bravi, come ad esempio nel terzetto Norma – Pollione – Adalgisa replicati da tre mimi equivalenti in maschere d’oro: una minacciosa Norma armata di coltello e in total black, un Pollione palestrato a torso nudo, una liliale Adalgisa biancovestita. Oppure quello che spesso s’aggira in scena senza sosta con la stessa maschera d’oro e in più un teschio in mano: anche a fine opera, implacabilmente.

In tanta sovraffollata e rovinosa girandola visiva, per nostra fortuna la conduzione orchestrale di Fabio Luisi riesce a restituire a Norma la sua essenza d’assoluto capolavoro musicale di prima metà Ottocento nell’adozione della revisione critica del manoscritto belliniano fatta dal musicologo Roger Parker. Nell’overture, il direttore riesce a sottolineare bene l’emancipazione del dettato sinfonico di Bellini dal vivace stile rossiniano: un’intensa partizione di temi musicali che anticipa alcuni motivi dell’opera e alterna momenti marziali a sospensioni contemplative, come ad esempio nell’incedere inquieto e convulso della parte centrale che, nel finale, si trasforma in struggente abbandono lirico grazie ai trilli dei violini primi, all’arpa, ai fiati su un sottostante e calmo fondo orchestrale. Nonostante una certa freddezza da inflessibile metronomo che spesso tende alla rinuncia del necessario slancio emotivo, Fabio Luisi lavora bene sull’intuizione tutta belliniana del comporre talvolta al di là dell’articolazione canonica del “pezzo chiuso”, con sezioni musicali che si susseguono senza soluzione di continuità come, nel primo atto, il duetto tra Norma e Adalgisa che all’arrivo di Pollione scorre con scioltezza nel terzetto Oh! di qual sei tu vittima. Oppure nella struggente tenerezza dell’introduzione dell’atto secondo, con quel cantabile, subito dopo fluidamente ripreso da Norma, del Teneri figli dove già s’intuisce che la sua mano armata di coltello non trafiggerà i due bambini. Merita un’osservazione a parte l’eccellente coro scaligero diretto da Alberto Malazzi. Avendolo ascoltato sullo stesso palcoscenico la sera prima in una superba esecuzione della Missa solemnis di Ludwig van Beethoven diretta sempre da Fabio Luisi, ci sembra lecito affermare con cognizione di causa che sia la migliore compagine corale italiana. Dopo che Pollione e il suo compagno d’armi Flavio hanno precipitosamente lasciato il palcoscenico, il coro dei Druidi / Patrioti italiani guidati da Oroveso viene introdotto da un motivo di banda e, nell’attesa del rito lunare della sacerdotessa Norma, ne descrive con impeto vibrante l’apparizione: (…) le cinge la chioma / la verbena ai misteri sacrata / in sua man come luna falcata / l’aurea falce diffonde splendor. E da una coralità così piena d’ammirazione emerge un senso di rivolta che non è più possibile reprimere, tanto che nella limpidezza del tessuto sinfonico si riescono a percepire tutti i molti cromatismi ostili e malevoli. Oppure nella trascinante esecuzione corale del Guerra! Guerra!: un’improvvisa e fragorosa onda sonora espressa con modernissima ritmica martellante, aizzata dalla furiosa collera di Norma come un “Sacre du printemps d’inizio Ottocento”.

Marina Rebeka ha affrontato il temibile ruolo protagonistico: un’interpretazione vocale e scenica di tutto rispetto. Nella sua Norma, nessun dissolvimento dell’ingombrante fantasma della Callas dal palcoscenico (e di sicuro neanche quello della Caballé), ma una certa riconoscenza da parte del pubblico per essere finalmente riuscita a svincolare dall’oblio l’opera belliniana alla Scala che da questa ripresa, e dopo quasi mezzo secolo, entra di diritto nel repertorio del teatro e si spera con una regia più degna di questo capolavoro musicale: un po’ come riuscì a fare Tiziana Fabbricini con La Traviata diretta da Riccardo Muti nella stagione 1989/1990. Alla sua prima grande scena, la Rebeka appare scendendo una monumentale scalinata con passi lenti e studiati da diva, vestito di lamé dorato e lunga capigliatura fulva stile Rita Hayworth in Pal Joey. Dal recitativo Sediziose voci, declamato con veemente drammaticità, si percepisce subito che il ruolo ieratico della sacerdotessa è in buone mani. Con una carrucola a vista viene calata una gigantesca sagoma di luna piena e il soprano attacca la preghiera Casta diva nella cantilenante suggestività dell’Andante sostenuto assai. Il direttore d’orchestra evidenzia l’intrinseco lirismo della vocalità belliniana che sembra accogliere nel canto ipnotico di Norma l’Ah, non credea mirarti di Amina de La Sonnambula. Segue il nascosto e sensuale pensiero “a parte” dell’impervia cabaletta Ah, bello a me ritorna, eseguita con belle variazioni nel da capo e, nell’insieme, in modo preciso e diligente, con fioriture senz’alcun brivido sutherlandiano. Eccellente attrice, la Rebeka è consapevole di quanto sia importante la declamazione nelle opere di Bellini: il suo canto attento ad ogni singola parola si rivela ad esempio nel drammatico recitativo dell’uccisione dei due figli che non riesce a compiere, una dolente e lacerata espressività che solo chi ha un senso innato del teatro può permettersi. Lo dimostra poi nelle sei scene degli ultimi quaranta minuti conclusivi dell’opera: sempre presente in palcoscenico da consumata attrice tragica, il soprano ha soltanto un momento solistico nel Deh, non volerli vittime, ma l’assoluta e carismatica centralità del suo personaggio ha permesso di definire questa grande scena finale come l’ “aria di Norma”. Ecco dunque ben scolpiti dalla cantante il succedersi incoerente d’avversi stati emozionali: il brutale grido di guerra, l’intimo ripiegamento nel dilemma fra vita pubblica e sofferta vita privata, la minacciosità spietata nei confronti dell’amante traditore, la flagrante ma perentoria autoaccusa, la commovente supplica al padre, il rassegnato ma anche fiero olocausto di sé in un poderoso crescendo dei solisti e del coro, con l’orchestra al suo vertice esecutivo. C’è risultato però necessario chiudere gli occhi per non assistere alla visione di Norma e Pollione riconciliati e giustiziati con fucilate alla schiena da un plotone d’esecuzione: di certo, la loro consueta morte al rogo ben poco s’addice all’ambientazione risorgimentale.

Freddie de Tommaso era Pollione ma, nonostante la consapevolezza che il personaggio del console romano è un viriloide dongiovanni babbeo, il tenore rinuncia alle poche finezze della parte per un uso sempre tonitruante e sfogato della voce come un post-Mario Del Monaco, senza peraltro averne le qualità timbriche e lo squillo luminoso. Di per sé Pollione ha momenti musicali intensi anche se nell’insieme il ruolo è piuttosto monocorde rispetto a quelli di Norma e di Adalgisa, con un dettato melodico marziale e una solida cantabilità ma anche aliena a ogni agilità. L’aria Meco all’altar di Venere è eseguita con cospicua potenza vocale ma anche con scarsa espressività, nonostante si presti a molte sfumature interpretative. Racconta infatti d’un incubo che all’inizio vagheggia i felici sponsali con l’amata Adalgisa a Roma, poi rovinati dall’apparizione d’una furiosa Norma in spaventevole atteggiamento minatorio. Segue il bellicoso proposito della sua cabaletta Me protegge, me difende che dovrebbe essere cantata con piglio irruento, risolta dal tenore in modo monotono, sebbene Luisi cerchi di supportarlo con una ritmica decisa. Ma è soprattutto nell’impari rapporto vocale con Adalgisa che emergono i limiti di Freddie de Tommaso: nel duetto, mentre lui le urla come un toro infoiato Va’crudele; e al dio spietato, la sua amata con luminose mezzevoci gli dà l’anima nell’E tu pure, ah! tu non sai .

È appunto l’Adalgisa di Vasilisa Berzhanskaya, già felicemente ascoltata come Preziosilla nell’inaugurale La Forza del Destino diretta da Riccardo Chailly, la vera sorpresa della serata. Era da tempo che non si sentiva, all’inchino finale, un tale boato di ovazioni alla Scala. Seducente physique du rôle, anche lei abbigliata in un lamé dorato come “doppio” rivale di Norma, appare accompagnata da una delicata melodia di flauti e clarinetti nel controcanto dei violini e intona Sgombra è la sacra selva. Da subito, s’ascolta una voce dallo splendido timbro, morbida e omogenea, facile nel registro acuto come sonora in quello grave, dal legato perfetto e con un’ammirevole capacità di mezzevoci. L’eccellenza della sua linea di canto emerge nel primo duetto con Norma nel declamato È ver. (…) Amore… Non t’irritar… lunga stagione pugnai per soffocarlo e nel secondo, quando s’abbandona con lei nel commovente cantabile Mira, o Norma, uno dei momenti più alti di tutta la rappresentazione.

In questa presuntuosa messinscena, Michele Pertusi è stato un Oroveso indiscusso boss del Risorgimento italiano, una presenza scenica comunque rimarchevole e dimostrata anche due mesi fa nel protagonismo assoluto dell’Attila verdiano alla Fenice. Anche se la voce tende a opacizzarsi nel registro acuto, si rimane sempre incantati dal suo timbro caldo e personale, dalla carismatica scolpitura dei recitativi, dalla cantabilità da vero basso nobile nell’esecuzione della sua aria solistica Ah! del Tebro al giogo indegno preceduta da un intenso dialogo col coro.

Una buona prova vocale e scenica per Clotilde, la confidente di Norma, di Laura Lolita Perešivana e per Flavio, il compagno d’armi di Pollione, di Paolo Antognetti nelle funzioni tradizionali di “pertichini” secondo il gergo del melodramma, cioè d’interlocutori d’appoggio.

Teatro alla Scala | 4 luglio 2025 | Norma

Musica di Vincenzo Bellini

Tragedia lirica in due atti dalla tragedia

Norma ou L’infanticide di Alexandre Soumet

Libretto di Felice Romani

Nuova produzione del Teatro alla Scala

CAST

Pollione: FREDDIE DE TOMMASO

Oroveso: MICHELE PERTUSI

Norma: MARINA REBEKA

Adalgisa: VASILISA BERZHANSKAYA

Clotilde: LAURA LOLITA PEREŠIVANA

Flavio: PAOLO ANTOGNETTI

 

Direzione: FABIO LUISI

Direzione del coro: ALBERTO MALAZZI

Regia: OLIVIER PY

Scene e costumi: PIERRE-ANDRÉ WEITZ

Luci: BERTRAND KILLY

Coreografia: IVO BAUCHIERO

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala

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Emilio Pappini

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