Un appuntamento ormai consueto nelle stagioni liriche modenesi, quello con l’opera barocca, reso superbo quest’anno con una pregevole edizione del più celebre e affascinante titolo haendeliano.
Sfidare consuetudini e tradizioni di un pubblico cresciuto a pane e Verdi, Puccini e più in generale in una comfort zone che difficilmente si spinge più indietro di Mozart non è affar semplice, ma da ormai diversi anni a questa parte c’è una direzione artistica a Modena, quella del Maestro Aldo Sisillo, che con determinazione si ostina nella nobile e purtroppo oggi rara convinzione che compito del teatro sia non solo cullare il pubblico nelle ripetute emozioni di titoli noti e arcinoti di nostalgica memoria, ma assolvere anche una funzione educativa, di ricerca e riscoperta, insomma di arricchimento. Ed ecco che grazie a questa testarda “missione”, di anno in anno nella città emiliana abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a stagioni variegate e variopinte, con curate produzioni che spaziano dal repertorio antico a quello contemporaneo, nelle giuste dosi e proporzioni. Semi che, germogliando, potranno contribuire sempre più all’allargamento dell’orizzonte di vedute del pubblico, ad una maggiore consapevolezza di come l’Opera abbia saputo nei secoli, mutando, osservare e raccontare l’uomo, la sua eterna interiorità e la Storia che attorno a lui viene scritta.
Ed eccoci così a parlare di una nuova edizione di Giulio Cesare, capolavoro di Georg Friedrich Haendel su libretto di Nicola Francesco Haym, nel nuovo allestimento coprodotto dai teatri di Ravenna, Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Lucca e Bolzano.
Titolo impegnativo sotto ogni punto di vista, quello musicale in primis, con la necessità di un cast di prim’ordine come lo fu il primo nel 1724 al King’s Theatre di Londra e ricolmo di ruoli un tempo affidati a cantanti castrati. La partitura è complessa e articolata, con una esuberante ricchezza di invenzioni e forme musicali, sempre perfettamente corrispondenti all’azione drammatica e conseguenti, quasi si trattasse di un meccanismo robotico, al gesto e alla parola scenica.
Ecco perché non può che esserci un sublime Ottavio Dantone con la sua fedele e altrettanto sublime Accademia Bizantina a metterci le mani in pasta, a far emergere il turbinio di emozioni e atmosfere che si susseguono a non finire, sempre nuove, sempre differenti in oltre tre ore di musica e teatro. Il bel suono degli strumenti d’epoca, supportato da una commovente attenzione ai dettagli, si amalgama perfettamente con le voci e si piega ad ogni cromatismo e dinamica ritmica richiesti. Innumerevoli sono gli sviluppi che Dantone, autore anche di tutte le variazioni, segue e fa restituire a cantanti e orchestra con efficacia, mescolando brillantezza, fiamme d’ira, suggestive pagine di etereo abbandono, ritmi marziali ed energici, sarabande, gighe, atmosfere talvolta malinconiche, talvolta euforiche, talora liriche, talora danzanti. Le sole costanti sono l’estrema armonia ed equilibrio che permeano l’esecuzione di uno spartito così ricco di pezzi, organico e scritture, e la compattezza con cui Dantone sostiene l’architettura musicale sottostante a quella drammatica, ideata magistralmente da Haendel in sequenze ben caratterizzate e riconoscibili ma tutt’altro che sconnesse.
Gli interpreti sono affiatati e ben assortiti a partire da Raffaele Pe, nei panni del protagonista Cesare, autore di una prova davvero convincente per varietà espressiva, padronanza della voce su tutta la tessitura, versatilità nel sapersi tanto abbandonare al lirismo più intimo e intenso, quanto esaltarsi in virtuosistiche agilità e nei momenti più eroici. Ciò che conta di più però, è che il cantante offre un’interpretazione complessiva del personaggio credibile e personale, facendo emergere un carattere complesso e sfaccettato.
La stessa varietà di carattere è emersa dall’ispirata interpretazione di Marie Lys come Cleopatra, che, supportata da una voce limpida e suadente, ha saputo emozionare e sedurre, affrontando con generosità dinamiche espressive e di fraseggio.
Filippo Mineccia disegna un Tolomeo davvero interessante, a tratti quasi grottesco ma senza scadere nell’eccesso. Antipatico a pelle, a tratti nevroticamente isterico ma anche cinicamente determinato, supporta questa visione del personaggio con solidità vocale e brillantezza nel canto.
Il ruolo di Achilla è invece sostenuto con sicurezza e il necessario approccio gagliardo e carognesco da Davide Giangregorio, mentre a vestire i panni di Cornelia è Delphine Galou, interprete musicale e sensibile, quasi onirica nel lasciarsi andare a dolci e morbide sfumature di fraseggio ed emissione.
Splendido è invece Federico Florio come Sesto. La sua voce sgorga luce, freschezza e con estrema naturalezza delinea un giovane energico e deciso.
Non certo inferiore è anche la prova dei due restanti interpreti, Andrea Gavagnin, Nireno, e Clemente Antonio Daliotti, Curio.
La regia è affidata a Chiara Muti, assistita da Paolo Vettori, che con l’ausilio delle scene di Alessandro Camera, assistito da Denise Navarra, dei costumi di Tommaso Lagattolla, assistito da Donato Didonna, e delle luci di Vincent Longuemare.
Muti parte da un parallelismo con la tragedia shakespeariana Vita e morte di Giulio Cesare e dall’assunto che occorre rifarsi alla musica di Haendel, più che al libretto di Haym, colpevole di imprigionare gli stati d’animo dei personaggi secondo i codici dell’epoca in rigidi schemi di numeri musicali ripetuti e volti più a far sfoggiare doti virtuosistiche canore degli interpreti che a favorire l’azione teatrale. È nella musica, sostiene la regista, che si trova il senso profondo della visione di quest’opera, la poesia vera e propria, il riscatto dalla staticità del libretto. Ed è per questo che opta per una dimensione simbolico-evocativa, seguendo lo scavo nella materia umana, nei contrasti svelati, nella ricerca di una tensione emotiva che il compositore fa con la partitura musicale.
La scena è dominata da otto grandi massi dorati che richiamano nei colori gli elementi caratteristici dell’Egitto e nelle forme il mistico sito di Stonehenge, luogo di “pietre sospese”. Questi massi compongono di fatto il volto di Giulio Cesare, vero fulcro dello spettacolo cui ruotano attorno tutti gli altri.
Nonostante l’opera sia seria, va detto che Chiara Muti la tratta con leggerezza e ironia, portando un tono giocoso anche in momenti drammatici, non ultimo attraverso un accurato apporto dei mimi. La regia invita a vedere il Settecento non con serietà, ma con un senso di divertimento teatrale che a onor del vero talvolta sfocia in qualche risatina o verso di troppo.
Il finale vede riunirsi i pezzi di volto del monumento a Cesare e ritrovarsi sulla scena tutti i personaggi, vivi e morti, che in un ultimo sussulto si svestono del peso del viaggio materiale che hanno compiuto e ritornano al limbo iniziale delle anime da cui avevano preso forma, quasi come si trattasse della fine di un sogno. Giulio Cesare è l’ultimo ad accasciarsi, mentre la corona d’alloro viene alzata al cielo, nel trionfo dell’Armonia e nell’esortazione rivolta al pubblico di riempire il cuore “di gioia e di piacer”.