Come conseguenza dell’apartheid che il Teatro Real ha imposto negli ultimi anni al repertorio italiano del primo Ottocento – ne è prova la prossima stagione, recentemente annunciata, priva di qualsiasi traccia belcantista – gli amanti del “belcanto underground” siamo costretti a pellegrinare per saziare le nostre appetenze chimeriche. Fortunatamente, questa volta non abbiamo dovuto andare lontano. È quindi doveroso riconoscere il coraggio e la lungimiranza del Teatro de la Maestranza di Siviglia nel mettere in scena un titolo tanto raro come Maria Padilla di Donizetti. La presenza era obbligatoria. Ci troviamo infatti di fronte a un gioiello inspiegabilmente occultato e, a parere di chi scrive, musicalmente superiore ad altri titoli donizettiani regi che, al contrario di questo, sono riusciti a ritagliarsi un posto nel repertorio, soprattutto grazie a un terzo atto di straordinaria ispirazione: struggente il preludio orchestrale, audace e raffinatissimo il terzetto “quasi a cappella” accompagnato solo dal corno inglese, prezioso il cantabile con flauto e arpa solisti affidato al baritono, “Ah! quello fu per me”… Non a caso l’opera fu tenuta in cartellone per ben 24 giornate consecutive al Teatro alla Scala di Milano dopo il suo successo al debutto. Se a tutto ciò si aggiunge un cast ideale in cui nessuno stona, come è avvenuto in questo caso, il risultato è una combinazione perfetta. Peccato per l’assenza della parte scenica: avrebbe potuto essere – ancora di più – una serata antologica.
Rispetto ad altre regine donizettiane, il libretto di Gaetano Rossi resta abbastanza fedele al racconto storico di Maria de Padilla e Pietro I di Castiglia, pur con le consuete licenze drammatiche tipiche del romanticismo operistico. Maria Padilla, amante segreta del re Don Pedro, si sposa con lui in segreto, ma non può rivelarlo per via di un giuramento, subendo il disprezzo popolare e politico mentre cerca di proteggere la sua famiglia caduta in disgrazia. Quando scopre che il padre è stato frustato per ordine del re, lo rimprovera e fugge. Alla cerimonia di incoronazione della nuova regina, Maria irrompe, si proclama legittima moglie e muore subito dopo essere stata riconosciuta come tale.
Originariamente, Rossi aveva previsto che Maria strappasse la corona a Blanca, se la ponesse sul capo e si suicidasse subito dopo; tuttavia, la censura lo proibì, considerandolo un affronto grave ai Borbone. Di conseguenza, Donizetti fu costretto a comporre un nuovo “semi-lieto fine”, piuttosto anticlimatico, che è quello ascoltato al Maestranza, in quanto incluso nell’unica edizione moderna disponibile dell’opera, realizzata negli anni ’70 dall’etichetta londinese Opera Rara, ben nota per la riscoperta del repertorio belcantista dimenticato. Tale edizione, ben lontana dall’essere una edizione critica, è un guazzabuglio di varie versioni dell’opera (Milano, Trieste e Napoli). Ad esempio, invece del duetto originale Maria-Ruiz contenuto nel manoscritto autografo, gli editori hanno optato per una versione alternativa con lieto fine composta per Napoli; lo stesso vale per la scena finale, in cui è stata scelta la versione post-censura anche se, come indica il musicologo e direttore PierAngelo Pelucchi, sarebbe possibile – seguendo le indicazioni nascoste di Donizetti nell’autografo – ricostruire il finale originale. Al contrario, la partitura di Opera Rara include la cavatina di María scartata dallo stesso Donizetti dopo il ritiro della soprano Erminia Frezzolini, e presenta il finale secondo originale invece di un altro finale alternativo conservato alla Biblioteca Nazionale di Francia. Pare che l’esecuzione di questo finale al debutto del 1841 lasciasse a desiderare, a causa della sua struttura complessa; perciò, Donizetti fu costretto a scriverne uno più semplice.
Ad ogni modo, nonostante questa mescolanza di numeri originali e alternativi e in attesa di un’edizione critica adeguata, Maria Padilla è tornata con grande successo a Siviglia dopo ben 158 anni (dopo essere circolata in tutta Europa prima di cadere nel totale oblio, l’ultima rappresentazione completa a Siviglia ebbe luogo – come indica Andrés Moreno Mengíbar nelle sue documentatissime note al programma – al Teatro Principal nel 1867), nell’ambito dell’impegno del Teatro de la Maestranza per recuperare titoli rari che portano nel loro DNA la città di Siviglia, luogo d’origine della stessa María de Padilla. Vedremo – si spera – se ci riserverà qualche altra sorpresa di questo tipo nella prossima stagione.
Particolarmente lodevole è risultata la prova del giovane maestro ucraino Sasha Yankevych, chiamato a sostituire all’ultimo momento Riccardo Frizza, assente per motivi di salute, e costretto a studiare e provare in tempi strettissimi una partitura del tutto sconosciuta. Sebbene a tratti un po’ pesante e bandistica e con poco slancio per quanto riguarda il fraseggio, tutto nella sua concertazione era al suo posto – il che è già molto, data la difficoltà della situazione –, riuscendo Yankevych a ottenere un suono opulento dalla Real Orquesta Sinfónica de Sevilla (tanto trasparente e nitido quanto la terribile acustica del Maestranza, dalla riverberazione esagerata e confusa, possa permettere), situata in buca, oltre ad accompagnare e guidare le voci con criterio impeccabile. Molto coinvolto e sonoro il Coro Teatro de la Maestranza, sotto la guida di Íñigo Sampil, e particolarmente brillante il suo “Nella reggia dell’amore”, il numero corale con seguidilla e gusto iberico che apre il secondo atto.
Ma, senza dubbio, i maggiori successi della serata risiedono nel formidabile cast vocale riunito, che ha saputo rendere pienamente giustizia alla partitura sconosciuta. Kristina Mkhitaryan ha firmato un’eccellente Maria Padilla, di grande intensità vocale e, anche senza scenografia, scenica. Nonostante un inizio un po’ contenuto della cavatina “Il più tenero suon d’arpa morente”, si è presto impadronita del personaggio, mettendo in mostra una voce ben timbrata e ricca di sfumature, molto carnosa nel centro, in linea con la sua recente partecipazione al Teatro Real nell’Eugenio Onegin dello scorso gennaio. I suoi acuti, un po’ aspri nella cavatina ma potenti nei numeri d’insieme, hanno offerto momenti di vera bellezza, mostrando anche un uso corretto del pianissimo e del filato. Al suo fianco, l’Ines Padilla della veterana mezzosoprano valenciana Silvia Tro Santafé, garanzia di equilibrio e affidabilità per il repertorio belcantista, e pur penalizzata dalle difficoltà acustiche, ha offerto una notevole scena d’ingresso “Sorridi, oh sposo amato”, risultando un perfetto complemento della Mkhitaryan nel duetto “Di pace a noi bell’iride”, entrambe impeccabili nella cadenza a solo, particolarmente impegnativa.
La sorpresa della serata è venuta dal molto coinvolto baritono moldavo Andrey Zhilikhovsky, che ha incarnato l’impulsivo Pedro di Castiglia, rivelando uno strumento torrente e straordinariamente nobile nel suo duetto con Maria “A te, oh cara, m’abbandona”, e allo stesso tempo sfumando con gusto e intelligenza nei passaggi più lirici, come nella sua bellissima scena del terzo atto precedentemente menzionata. Solida è stata anche la partecipazione del ben noto tenore belcantista Francesco Demuro. Pur con la limitazione che comporta un materiale eccessivamente leggero e, a priori, poco adatto a incarnare il padre anziano, Demuro ha costruito un Ruiz credibile, tenero nella sua peculiare scena di follia e veemente nei suoi scoppi d’ira, eseguendo una molto apprezzabile cabaletta “Una gioja ancor mi resta”, dal sapore innegabilmente verdiano.
Tra i comprimari, si sono distinti, per sicurezza e impegno nelle loro fugaci apparizioni, Carolina Rotela e Julio Ramírez – quest’ultimo membro del coro – nei ruoli di Francisca e Don Alfonso, rispettivamente. David Lagares, comprimario di lusso abituale nelle programmazioni liriche nazionali, ha offerto un ritratto deciso del cospiratore Don Ramiro. Più discreto vocalmente è risultato il tenore Óscar Oré come Don Luis, dal timbro biancastro, sebbene corretto nel suo intervento nel terzetto a cappella “Ah no!… per noi dei vivere”.
Como consecuencia del apartheid que el Teatro Real viene sometiendo en los últimos años al repertorio italiano del primer XIX –para muestra de ello, la temporada próxima, recientemente anunciada, sin rastro de presencia belcantista–, los amantes del «belcanto underground» nos vemos obligados a peregrinar para ver saciadas nuestras quiméricas apetencias. Afortunadamente, esta vez ha sido cerca. Es, por ello, de agradecer la valentía y acierto del sevillano Teatro de la Maestranza en montar un título tan infrecuente como la Maria Padilla de Donizetti. Desde luego, la asistencia era obligatoria. Así, nos encontramos ante una joya inexplicablemente oculta y, a juicio de quien escribe, musicalmente superior a otros títulos donizettianos regios que, a diferencia del que nos ocupa, sí han sabido labrarse un hueco en el repertorio, sobre todo en lo que respecta a su inspiradísimo tercer acto: estremecedor el preludio orquestal inicial, exquisito a la par que audaz ese terceto «cuasi a cappella» (con el único acompañamiento de un corno inglés), precioso el cantabile con solo de flauta y arpa confiado al barítono, “Ah! quello fu per me”… Con razón la obra se mantuvo 24 jornadas consecutivas en el cartel del Teatro alla Scala de Milán, tras su exitoso estreno. Si a todo ello se le suma un elenco idóneo en el que nadie desentona, como ha sido el caso, se obtiene la combinación perfecta. Lástima la ausencia de escena, pues la cosa podría haber sido –aún más– antológica, si cabe.
Si lo comparamos con el de otras reinas donizettianas, el libreto de Gaetano Rossi permanece bastante fiel al relato histórico de María de Padilla y Pedro I de Castilla, aun pese a las habituales licencias en pro de lo dramático típicas del Romanticismo operístico. María Padilla, amante secreta del rey Pedro, se casa con él en secreto, pero no puede revelar su matrimonio por un juramento, sufriendo el desprecio popular y político mientras intenta proteger a su familia caída en desgracia. Al descubrir que su padre fue azotado por orden del rey sin saberlo, reprocha a Pedro y huye. En la coronación de la nueva reina, María irrumpe, se proclama legítima esposa y muere tras ser reconocida como tal.
Originalmente, Rossi había pensado que María arrebatase a Blanca su corona, se la ciñese a sí misma y se suicidase a continuación; no obstante, la censura no lo permitió, considerándolo una grave afrenta a los Borbones. En consecuencia, Donizetti hubo de componer un nuevo «semi-lieto fine», algo anticlimático, que es el que hemos podido escuchar en el Maestranza, al ser el que incluye la única edición moderna disponible de Maria Padilla, realizada en los años 70 por el sello discográfico londinense Opera Rara, bien conocido en su labor de recuperación del repertorio belcantista olvidado. Esta edición, muy lejos de poder ser considerada edición crítica, responde a un batiburrillo de diferentes versiones de la ópera (las de Milán, Trieste y Nápoles). Por ejemplo, en lugar del dueto María-Ruiz original contenido en el manuscrito autógrafo, los editores abogaron por una versión alternativa con desenlace feliz compuesta para Nápoles; ídem con la escena final, incluyéndose la versión post-censura aun, según indica el musicólogo y director PierAngelo Pelucchi, siendo posible –siguiendo las ocultas indiciaciones de Donizetti en el autógrafo– la reconstrucción del finale original. Al contrario, la partitura de Opera Rara añade la cavatina de María desechada por Donizetti tras la caída de cartel de la soprano Erminia Frezzolini, además de contener el finale secondo original en lugar de otro finale alternativo conservado en la Biblioteca Nacional de Francia. Según parece, la interpretación de este finale en el estreno de 1841 dejó bastante que desear, dada la supuesta dificultad de su estructura; por ende, Donizetti se vio obligado a esbozar uno más sencillo.
Sea como fuere, pese a esta mezcolanza de números originales y alternativos, y a espera de una edición crítica en condiciones, Maria Padilla retornaba con gran éxito a Sevilla 158 años después (tras viajar por toda Europa antes de caer en el más absoluto olvido, la última representación completa de Maria Padilla en Sevilla tuvo lugar, según indica Andrés Moreno Mengíbar en sus sesudamente documentadas notas al programa, en el Teatro Principal en 1867), dentro del afán del Teatro de la Maestranza por recuperar títulos infrecuentes que llevan la ciudad de Sevilla (de donde era originaria María de Padilla) grabada en su ADN. Veremos –ojalá que sí– si nos depara alguna otra sorpresa como esta en su próxima temporada.
Especialmente loable resultó la labor del joven maestro ucraniano Sasha Yankevych, quien hubo de estudiar y ensayar a contrarreloj una partitura totalmente desconocida, como sustituto de ultimísimo momento del inicialmente previsto Riccardo Frizza, apartado de la producción por razones médicas. Si bien algo pesante y bandística en exceso, y con poco vuelo en lo que al fraseo respecta, todo en su concertación estuvo en su sitio –que ya es mucho, dado lo comprometido del asunto–, extrayendo Yankevych un sonido opulento de la Real Orquesta Sinfónica de Sevilla (todo lo transparente y nítido que la terrible acústica del Maestranza, de reverberación exagerada y borrosa, pueda permitir), situada en el foso, además de acompañar y conducir con intachable criterio a las voces. Muy implicado y sonoro el Coro Teatro de la Maestranza, a las órdenes de Íñigo Sampil, y especialmente brillante su “Nella reggia dell’amore”, el seguidillesco e ibérico número coral con que arranca el segundo acto.
Pero, sin duda, los mayores éxitos de la velada residen en el formidable elenco vocal reunido, que supo hacer justicia con creces a la desconocida partitura. Kristina Mkhitaryan firmó una excelente María Padilla, de gran intensidad vocal y, aun sin escenografía, escénica. Pese a un inicio algo contenido de la cavatina “Il più tenero suon d’arpa morente”, pronto se adueñó del personaje, haciendo gala de una voz bien timbrada y rica en matices, muy carnosa en el centro, en línea con su reciente intervención en el Teatro Real en el Eugenio Oneguin del pasado enero. Sus agudos, algo agrios en la cavatina, pero potentes en los número de conjunto, aportaron momentos de verdadera belleza, exhibiendo igualmente un correcto uso del pianissimo y del filado. A su lado, la Inés Padilla de la veterana mezzo valenciana Silvia Tro Santafé, garantía de equilibrio y fiabilidad para el repertorio belcantista, y aun perjudicada por las dificultades de la acústica, ofreció una muy notable escena de entrada “Sorridi, oh sposo amato”, resultando un perfecto complemento a Mkhitaryan en el dueto “Di pace a noi bell’iride”, ambas impecables en la exigente cadenza a solo.
La sorpresa de la noche vino de mano del muy implicado barítono moldavo Andrey Zhilikhovsky, quien encarnó al impulsivo Pedro de Castilla, desvelando un instrumento torrencial y extraordinariamente noble en su dueto con Maria “A te, oh cara, m’abbandona”, a la par que matizando con mucho gusto e inteligencia en los pasajes más líricos, como su bellísima escena del tercer acto anteriormente citada. Solvente fue, asimismo, la participación del de sobra ya conocido tenor belcantista Francesco Demuro. Aun con la limitación que supone un material en exceso liviano y a priori poco apropiado para encarnar al anciano padre, Demuro construyó un Ruiz creíble, tierno en su peculiar escena de locura y vehemente en sus explosiones de ira, ejecutando una muy estimable cabaletta “Una gioja ancor mi resta”, de innegable sabor verdiano.
Entre los secundarios, destacaron, por su seguridad y entrega en sus efímeras intervenciones, Carolina Rotela y Julio Ramírez, este último miembro del coro, como Francisca y Don Alfonso, respectivamente. David Lagares, comprimario de lujo habitual en las programaciones líricas patrias, ofreció un rotundo retrato del conspirador Don Ramiro. Más discreto vocalmente resultó el tenor Óscar Oré como Don Luis, de timbre algo blanquecino, pero cumplidor en su intervención en el terceto a cappella “Ah no!… per noi dei vivere”.