IN ITALIANO
IN SPAGNOLO (originale)
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Dopo più di vent’anni dalla sua riapertura, Attila è finalmente approdato al Teatro Real. Lo ha fatto, però, in forma di concerto, modalità che in questa casa è ormai diventata un marchio di fabbrica, con tutto il suo apparato abituale, in questa occasione ancor più accentuato (leggi, occhi incollati alla partitura e interpreti rigidi come baccalà), e con una frequenza allarmante che sembra giustificata dalla convinzione che “se non c’è messinscena, è perché il titolo non la merita”. O, almeno, è questo ciò che sembra pensare il signor Joan Matabosch nel confrontarsi con il Verdi “di galera”, dato che anche I lombardi alla prima crociata – questo luglio – e I masnadieri – nella prossima stagione – seguiranno lo stesso schema, mentre alla scena viene affidata l’ennesima Traviata. Il problema non è la versione da concerto (su questo stesso palco è stato dimostrato recentemente – mi viene in mente La Merope di Terradellas – che il formato concertante può funzionare alla perfezione se c’è energia teatrale in chi canta), bensì che, in questo caso, nemmeno da lontano è emerso quel vigore e quella incandescenza del primo Verdi, con un cast vocale povero di espressività e privo di tensione scenica, trasmettendo una inusitata sensazione di freddezza. L’omaggio alla leggendaria soprano galiziana Ángeles Gulín, nascosto in una riga discreta dello squallido foglietto distribuito, è parso un tributo modesto per colei che fu una delle grandi Odabelle del XX secolo.
Se si dovesse definire Attila con un solo aggettivo, questo sarebbe “incendiaria”, non per la ferocia del protagonista, bensì per la sua musica vibrante, poco sottile nella sua orchestrazione, in cui spicca in particolare la componente patriottica, così frequente nel primo Verdi. Attila è dunque una successione di numeri che risponde rigidamente alla convenzione teatrale dell’epoca, ma è costellata di cabalette virulente che invitano ad alzarsi in piedi e sguainare la spada, dove ogni numero è un highlight più memorabile del precedente; è un’opera di teatralità esplosiva che richiede cantanti senza paura e una bacchetta dal polso fermo.
Fortunatamente, quest’ultima l’abbiamo avuta. Abituati ai Verdi e Puccini diretti con più pesantezza e mancanza di dettagli che slancio, oggi Nicola Luisotti ha optato per l’esatto contrario, il che è apprezzabile, premendo l’acceleratore fino in fondo, firmando probabilmente la versione di Attila più iperattiva della storia. Accanto a lui, Riccardo Muti – e non è poco –, noto per l’energia con cui affronta le partiture verdiane, sembrava una nonnina che guida a 30 all’ora in autostrada. In alcuni momenti, soprattutto durante la tempesta del prologo e nel finale secondo, precipitoso ma efficace, sembrava che fosse Speedy González in persona ad aver preso in mano la bacchetta. Non è mancata la tensione, con l’Orquesta Sinfónica de Madrid che ha risposto con precisione e impeto a ogni attacco; né l’ispirazione e l’immaginazione negli accompagnamenti monotoni che Verdi affida alle sezioni lente; né simpatiche licenze personali come la tendenza a legare gli accordi finali di ogni numero. In assenza di teatralità scenica, almeno c’è stata teatralità musicale, e già questo è mezzo trionfo.
Da parte sua, il Coro Intermezzo, diretto da José Luis Basso, ha offerto – come d’abitudine – una prova solida, purtroppo un po’ offuscata dall’effetto assordante della cassa acustica, ma con una sezione maschile sonora e potente nei cori guerrieri e una femminile impeccabile in “Chi dona luce al cor?” ed eterea in “Entra fra i plausi, o vergine”.
I tempi migliori di Sondra Radvanovsky, tanto celebrata in questo teatro, sono ormai passati, e la sua partecipazione in queste recite lo conferma. Pur non potendo negare un’emissione generosa, oltre che esperienza, intenzione e impegno, tutto questo non basta a coprire l’enorme esigenza tecnica richiesta dal personaggio. Odabella è, senza dubbio, uno dei ruoli più ardui del Verdi “di galera”, al pari di Abigaille. La sua scena d’ingresso, “Allor che i forti corrono” – un esercizio di pirotecnica vocale e salti intervallari micidiali – è stata macchiata da un vibrato fuori controllo, timbro acido e acuti sforzati. Ancora più discutibile è stato il suo “Oh! nel fuggente nuvolo”, un vero calvario vocale dove, malgrado le buone intenzioni nel fraseggio, i filati si sono frantumati, con alcuni suoni più vicini a uno starnazzio che a un pianissimo. Detto ciò, è stata l’unica del cast capace di infondere un minimo di credibilità al suo personaggio. Va anche riconosciuto che la sua prestazione è migliorata sensibilmente con il progredire della recita, assestandosi vocalmente nei pezzi d’insieme e riservando alcune delle sue carte migliori per l’ultimo atto. Nonostante ciò, non è sfuggita a qualche fischio isolato durante i saluti finali.
All’interno di un cast diseguale, l’Attila di Christian Van Horn è stato, vocalmente, il più convincente. La sua voce non è la più nobile né la più rotonda del panorama basso attuale, ma ha mostrato una certa solidità e un fraseggio ordinato. Sono mancate l’italianità e l’oscurità che Attila richiede, ma la sua interpretazione non è mai caduta nella rudezza. Michael Fabiano è stato un Foresto dai mezzi irregolari: canta sempre con ardore, il centro della sua voce può risultare gradevole, ma il fraseggio si impantana pericolosamente nella monotonia, e gli acuti lasciano intravedere un’emissione aperta. Inoltre, Artur Ruciński ha cantato con buon gusto ed esibito un legato curato, ma il suo timbro – per momenti, come ha dimostrato nella corretta cabaletta “È gettata la mia sorte”, completamente sovrastato dall’orchestra, posta nella buca – manca della mordacità e dell’aggressività verdiana che la parte di Ezio richiede.
Tra i comprimari, ha brillato di luce propria l’Uldino di Moisés Marín, comprimario di lusso a Madrid, mentre fuori dai nostri confini affronta ruoli di grande spessore, come Pirro nell’Ermione rossiniana. Invece, Insung Sim è stato un papa Leone I anemico, senza profilo né imponenza, lontano dall’autorità che dovrebbe ispirare un sommo pontefice capace di fermare nientemeno che Attila. Torniamo sempre allo stesso punto: che senso ha far venire appositamente un cantante straniero per un ruolo la cui parte vocale dura solo pochi secondi, e per di più con questo risultato?
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Después de más de dos décadas desde su reapertura, Attila se presentaba por fin en el Teatro Real. Lo hacía, eso sí, en versión de concierto, modalidad que en esta casa se ha convertido ya en seña de identidad, con todo su aparato habitual en esta ocasión mucho más acentuado (atriles, ojos enfrascados en la partitura e intérpretes tiesos como la mojama), y una alarmante frecuencia que parece justificarse por la convicción de que «si no hay escenificación, será porque el título no la merece». O, al menos, esto es lo parece pensar el señor Joan Matabosch al enfrentarse al Verdi «de galeras», pues tanto I lombardi alla prima crociata –este julio– como I masnadieri –la próxima temporada– seguirán el mismo sistema, mientras que la escena es confiada a la enésima Traviata. El problema no es la versión concertante (en este mismo escenario se ha demostrado hace bien poco –me viene a la mente La Merope de Terradellas– que el formato en concierto puede funcionar a la perfección si hay energía teatral en quien canta), sino que, en este caso, ni por asomo apareció ese vigor e incandescencia del primer Verdi, con un reparto vocal ayuno en expresividad y carente de tensión escénica, transmitiendo una inusitada sensación de frialdad. El homenaje a la mítica soprano orensana Ángeles Gulín, escondido en una discreta línea del escuálido «cutrefolleto» repartido, se antojó un pobre tributo para quien fuera una de las grandes Odabellas del siglo XX.
Si uno tuviera que definir Attila con un solo adjetivo, este sería «incendiaria», no por lo sanguinario de su protagonista, sino por su música vibrante, poco sutil en lo que a su chundachunera orquestación respecta, donde destaca especialmente el componente patriótico, tan frecuente en el Verdi primerizo. Así, Attila es una sucesión de números que responde inflexiblemente a la convención teatral del momento, pero plagada de cabalettas virulentas que incitan a levantarse del asiento y desenfundar la espada, y donde cada número es un highlight mayor que el anterior; es una ópera de una teatralidad explosiva que exige cantantes sin miedo y una batuta con pulso firme. Afortunadamente, lo segundo sí lo tuvimos.
Acostumbrados a Verdis y Puccinis acometidos con más pesadez y falta de detalles que impulso, hoy Nicola Luisotti optó por justo lo contrario, cosa que se agradece, apretando el acelerador hasta el fondo, y firmando probablemente la versión de Attila más hiperactiva de la historia. A su lado, Riccardo Muti –y ya es decir–, distinguido por la garra con que acomete las partituras verdianas, parecía una abuelita conduciendo a 30 kilómetros por hora en la autovía. En algunos momentos, especialmente en la tormenta del prólogo y el atropellado pero efectivo finale secondo, daba la sensación de que el mismísimo Speedy González había empuñado la batuta. No faltó nervio, respondiendo la Orquesta Sinfónica de Madrid con precisión e ímpetu a cada ataque, ni inspiración e imaginación en los monótonos acompañamientos que Verdi confía a las secciones lentas; tampoco faltaron simpáticas licencias personales como la tendencia a ligar los acordes finales de cada número. A falta de teatralidad escénica, al menos hubo teatralidad musical, lo que es ya medio triunfo.
Por su parte, el Coro Intermezzo, dirigido por José Luis Basso, ofreció –como es costumbre– una prestación sólida, desafortunadamente algo empañada por el efecto ensordecedor producido por la caja acústica, pero con una sección masculina sonora y potente en los coros guerreros y femenina impecable en “Chi dona luce al cor?” y etérea en “Entra fra i plausi, o vergine”.
Los mejores tiempos de Sondra Radvanovsky, a quien tanto se ha celebrado en este teatro, ya han pasado, y su intervención en estas funciones termina por confirmarlo. Si bien no podemos negar una emisión generosa, además de experiencia, intención y entrega, esto no basta para cubrir la exigencia técnica que requiere el personaje. Odabella es, sin lugar a duda, uno de los papeles más exigentes del Verdi «de galeras», al nivel de la Abigaille. Su escena de salida, “Allor che i forti corrono” –todo un ejercicio de pirotecnia vocal y saltos interválicos temibles– se vio manchada por un vibrato descontrolado, timbre avinagrado y agudos destemplados. Más discutible fue aún su “Oh! nel fuggente nuvolo”, todo un viacrucis vocal donde, pese a las buenas intenciones en el fraseo, los filados se resquebrajaron, con algunos sonidos más cercanos al graznido que al pianissimo. Con todo, fue la única del elenco capaz de insuflar algo de credibilidad a su personaje. Además, hay que reconocer que su prestación mejoró sustancialmente con el transcurso de la función, asentándose vocalmente en los conjuntos y reservando algunas de sus mejores cartas para el último acto. Aún así, no se libró de algunos abucheos aislados en los saludos finales.
Dentro del irregular reparto, el Attila de Christian Van Horn fue, vocalmente, lo más convincente. Su voz no es la más noble ni la más redonda del panorama bajo actual, pero mostró cierta firmeza y un fraseo aseado. Se echaron en falta la italianità y la oscuridad rotunda que Attila exige, pero su interpretación nunca cayó en lo rudo. Michael Fabiano fue un Foresto de medios irregulares: canta siempre con arrojo, el centro de su voz puede resultar atractivo, pero el fraseo se empantana alarmantemente en lo monótono, y los agudos entrevén una emisión abierta. Por otro lado, Artur Ruciński cantó con buen gusto y exhibió un legato cuidado, pero su timbre –por momentos, tal como demostró en su correcta cabaletta “È gettata la mia sorte”, totalmente sobrepasado por la orquesta, situada en el foso– carece del mordiente y la agresividad verdiana que pide la parte de Ezio.
Entre los secundarios, brilló con luz propia el Uldino de Moisés Marín, comprimario de lujo en Madrid, mientras que fuera de nuestras fronteras afronta papeles de gran enjundia, como Pirro de la Ermione rossiniana. En cambio, Insung Sim firmó un papa León I anémico, sin perfil ni imponencia, lejos de la autoridad que debiera infundir un sumo pontífice capaz de detener al mismísimo Attila. Volvemos a lo de siempre: ¿qué sentido tiene traer expresamente a un cantante extranjero para un papel cuya intervención vocal dura solamente unos segundos, y encima con este resultado?