Dopo quindici anni ritorna al teatro madrileno Evgenij Onegin (Eugenio Onegin), seguito da La dama di picche, il titolo operistico più celebre di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Quindi, la visita del Bol’šoj a Madrid non suscitò particolare interesse o rilevanza, come testimoniano le critiche di allora, con un risultato artistico insufficiente. Quindici anni dopo, il Teatro Real propone una nuova produzione (coprodotta con il Gran Teatre del Liceu di Barcellona, dove è stata presentata nella scorsa stagione, e Den Norske Opera & Ballet di Oslo) con il regista tedesco Christof Loy, presenza abituale della casa, e il futuro – con inizio del contratto nella prossima stagione – direttore musicale del teatro, Gustavo Gimeno, al timone.
Come no, la consueta e scherzosa abitudine del Teatro Real di cercare anniversari persino sotto ogni sasso non si ferma; così, le rappresentazioni attuali servono a commemorare una questione apparentemente banale, ovvero il 225º anniversario della nascita di Aleksandr Puškin, autore del romanzo in versi omonimo su cui si basa l’opera di Čajkovskij. L’idea di mettere in musica quel romanzo nasce da un suggerimento della cantante Elizaveta Lavrovskaja. Čajkovskij inizialmente rifiuta, convinto della scarsa teatralità di questa trama ben conosciuta dal pubblico russo dell’epoca. Tuttavia, si sente identificato con la storia e affascinato dalla sua “massima semplicità e sincerità”; in una sola notte, con l’aiuto di Konstantin Šilovskij, abbozza un progetto per l’opera (o, più precisamente, come l’autore la definisce, “scene liriche”). Čajkovskij non credeva che i grandi divi potessero rendere giustizia a questa semplicità, affidando la prima agli studenti del conservatorio di Mosca. Né aveva fiducia nel futuro dell’opera o nel fatto che potesse approdare ai grandi teatri. Come si è visto, si sbagliava. Come ammette in una delle sue lettere, il personaggio di Tat’jana lo conquistò. Ciò spiega perché Onegin, il presunto protagonista, debba aspettare fino alla fine dell’opera per agire come tale. Allo stesso modo, risulta curioso il parallelismo tra le esperienze dei personaggi e quelle del compositore stesso. Come Onegin – sebbene Čajkovskij fosse l’antitesi del tipico “uomo superfluo” della letteratura russa dell’Ottocento rappresentato da Onegin – anche lui ricevette una lettera d’amore dalla sua futura moglie, la ingenua Antonina Miliukova, che portò a un matrimonio disastroso per ovvie ragioni.
Questa è la seconda volta che Christof Loy affronta Eugenio Onegin, avendolo già diretto a La Monnaie di Bruxelles nel 2001, ambientandolo nell’Unione Sovietica stalinista. Come scriveva Alejandro Martínez nella sua critica per Platea Magazine, “quando compri un Loy, ottieni un Loy”. In effetti, a questo punto nessuno dovrebbe scandalizzarsi: in questa visione di Onegin, Loy rimane assolutamente fedele ai suoi tratti distintivi; cioè, concentrare la scena in uno spazio ridotto (secondo Loy, nel programma di sala, “per mettere in risalto la storia di queste persone che decidono di aprirsi l’una all’altra e cercano di sfuggire alla propria solitudine”), impedendo una visibilità completa se non si è acquistato un biglietto perfettamente centrato (per di più, non mancano le occasioni in cui i personaggi si trovano addossati alle pareti laterali del palco); l’onnipresenza di figuranti lascivi interessati solo al sesso; l’accecante bianco e un minimalismo freddo. Anzi, gelido, poiché l’intellettualità con cui Loy ritrae i personaggi provoca una sensazione di freddezza inusitata, sebbene non siano affatto apatici: nonostante, il contrasto tra la Tat’jana innocente e infantile e l’Onegin arrogante e rozzo del primo atto, e la Tat’jana impassibile di fronte a un Onegin pentito e, finalmente, innamorato del terzo, risulta chiarissimo.
Tutto è meticolosamente calcolato, senza alcun margine per l’improvvisazione, da un cast molto coinvolto nella drammaturgia proposta da Loy, che prende alla lettera il concetto di «scene liriche», con continui saliscendi del sipario anche senza alcun cambiamento scenico. La struttura è divisa in due parti: la prima comprende il primo atto e la prima scena del secondo, incentrata sul personaggio di Tat’jana; la seconda, dal duello tra Lenskij e Onegin in poi. Tutta la prima parte si svolge, senza grandi stravaganze, in un unico ambiente, una sala da pranzo nella casa di campagna di Tat’jana. Nella seconda parte, ambientata in uno spazio bianco e atemporale – presumibilmente la mente di Onegin – completamente vuoto, con un’unica porta, qualsiasi accenno di fedeltà al libretto svanisce in un batter d’occhio. Quando i due amici sembrano essersi riconciliati, Lenskij si suicida sparandosi in bocca. Senza apparente salto temporale, la polonaise che apre il terzo atto diventa una baccanale rumorosa che copre la musica dell’orchestra e che, per inciso, ha suscitato proteste da parte di un pubblico eccessivamente puritano alla prima. Non so cosa Loy voglia comunicare con questi domestici libidinosi, che in questa occasione non discernono nemmeno più “tra carne e pesce”, toccandosi orgiasticamente o ballando in cerchio freneticamente. Pare che Loy, come già dimostrato in Rusalka e Arabella, ricorra al sesso non giustificato quando rimane a corto di idee, o abbia un’ossessione per il tema. Intanto, il cadavere di Lenskij, rimasto immobile, risuscita miracolosamente, si abbraccia con un Onegin tormentato e lascia la sala. È notevole anche la violenza e l’intensità con cui Loy rappresenta il confronto tra Onegin e Tat’jana, portando i cantanti allo stremo, fisicamente esausti.
Dal punto di vista musicale, quest’Onegin è stato apprezzabile, pur senza raggiungere l’antologia. Corretta, ma poco immaginativa, la direzione di Gustavo Gimeno, finora non molto abituato al repertorio operistico, che replica il successo ottenuto con L’angelo di fuoco nel 2022. Gimeno, attento ai cantanti, ha dato ritmo nei passaggi strumentali come la mazurka, la polonaise o la scozzese, offrendo una lettura emotiva e precisa della scena della lettera. Alcuni problemi sporadici negli ottoni, in particolare nei corni, non hanno impedito di notare un netto miglioramento dell’orchestra rispetto alla Maria Stuarda del mese scorso, soprattutto per quanto riguarda gli archi, allora rachitici e sfilacciati, ora più corposi e coesi, con una chiara differenziazione dei piani orchestrali e una perfetta sincronia tra buca e scena. Anche se non è che sia molto complicato, tutto sembra indicare che ne usciremo favorevoli con la nuova direzione dell’orchestra del Teatro Real.
Magnifico, come sempre, il coro, preparato da José Luis Basso. Il movimento frenetico e lo spazio ridotto a cui li sottopone la messa in scena non sono stati affatto un impedimento per deliziare il pubblico con un “Vayinu, vayinu” e un valzer del secondo atto impeccabili. Da sottolineare anche l’intervento del tenore solista nel coro interno introduttivo.
Il Teatro Real sembra aver soddisfatto, forse inconsapevolmente, il desiderio di Čajkovskij, rinunciando a grandi nomi della lirica contemporanea. Però, il risultato è stato un cast equilibrato e assolutamente competente. Kristina Mkhitaryan è stata la grande trionfatrice della serata, come testimoniano i calorosi applausi raccolti nel lungo monologo della scena della lettera, una vera dimostrazione di emozione e virtuosismo. Il timbro della Mkhitaryan è flessibile e caldo, omogeneo in tutta la tessitura. Dotata di una tecnica e musicalità notevoli, la soprano russa ha incarnato una Tat’jana sensuale tanto nella vulnerabilità quanto nella forza del personaggio, con una presenza scenica straordinaria che ha indubbiamente valorizzato il ritratto delineato da Loy. In sintesi, un’interprete in ascesa la cui carriera merita di essere seguita.
Il baritono ucraino Iurii Samoilov si è rivelato un Onegin convincente e viscerale, di grande intensità e impegno scenico, relegato a un secondo piano dalla produzione, qui, anziché un uomo di mondo spensierato, uno “sfigato e cafone” quasi impercettibile nel caos generale del primo atto. Vocalmente, Samoilov ha mostrato un timbro di una certa attrattiva, solido nel registro medio, sebbene talvolta un po’ ruvido. Da parte sua, Bogdan Volkov ha interpretato un Lenskij languido e fragile, un’eccellente contrapposizione all’Onegin sbruffone, con una voce lirica e vellutata, anche se troppo leggera, risultando penalizzato nella proiezione. Nonostante, la sua esecuzione dell’aria “Kuda, kuda” è stata un altro dei momenti culminanti della serata, dove ha dimostrato musicalità e sensibilità interpretativa, con delicati pianissimi.
Niente da eccepire sulla Olga della mezzosoprano Victoria Karkacheva, che ha offerto una performance più che adeguata nella sua breve aria del primo atto. Lo stesso vale per la Larina di Katarina Dalayman, sempre affidabile nel suo ruolo discreto. Nonostante uno strumento inevitabilmente indebolito, ma straordinariamente ben conservato per i suoi 84 anni, la veterana Elena Zilio ha sfoggiato un volume invidiabile nel ruolo della simpatica e comica nutrice Filipp’evna. Efficiente anche il basso Maxim Kuzmin-Karavaev, già Vodnik nella Rusalka di Loy al Teatro Real nel 2020, che ha interpretato il doppio ruolo di Zareckij e del principe Gremin (sembra che la visione registica li concepisca come un unico personaggio), rivelando nell’aria “Lyubvi vsye vozrasti pokorni” un timbro e un’emissione poco nobili. Un vero lusso è stata la presenza del tenore Juan Sancho nel ruolo del vicino francese Triquet, trasformato in questa produzione in un clown da festa di compleanno. Quanto al capitano correttamente interpretato da Frederic Jost, anche stavolta, e con ancor più ragione, mi chiedo: quale sarebbe il motivo di ingaggiare un artista straniero per un ruolo che canta dieci secondi?
Quince años hubo que esperar para el retorno al coliseo madrileño de Yevgueni Oneguin (Eugenio Oneguin), seguido de La dama de picas, el título operístico más celebre de Piotr Ilich Tchaikovsky. Entonces, la visita del Bolshói a Madrid no suscitó especial interés o trascendencia, tal como reflejan las críticas, con un resultado artístico insuficiente. Quince años después, el Teatro Real propone una nueva producción (coproducida con el Gran Teatre del Liceu de Barcelona, en donde se pudo ver la temporada pasada, y Den Norske Opera & Ballet de Oslo) con el director de escena alemán Christof Loy, habitual de la casa, y el futuro –con inicio de contrato en la próxima temporada– director musical del teatro, Gustavo Gimeno, a los mandos.
Cómo no, la jocosa costumbre teatralrealera de buscar efemérides hasta debajo de las piedras no cesa; así, las presentes representaciones sirven para conmemorar una cuestión tan aparentemente trivial como es el 225º aniversario del nacimiento de Aleksandr Pushkin, autor de la novela en verso homónima en que se basa la ópera de Tchaikovsky. La idea de poner música a dicha novela parte de una sugerencia de la cantante Yelizaveta Lavróvskaya. Tchaikovsky se niega inmediatamente, convencido de la escasa teatralidad de este argumento bien conocido por el público ruso de la época. No obstante, se ve identificado con el argumento, a la vez que cautivado por su «máxima simplicidad y sinceridad»; en una sola noche, con la ayuda de Konstantín Shilovski, esbozará un planteamiento para la ópera (o, más bien, como lo denomina su autor, «escenas líricas»). Tchaikovsky no creía que los grandes divos pudieran hacer justicia a esta simplicidad, confiando su estreno a los estudiantes del conservatorio de Moscú. Tampoco tenía fe en el futro de la obra ni en pudiese dar el salto a los grandes teatros. A la vista está que se equivocó. Tal como admite en una de sus cartas, el personaje de Tatiana lo enamoró. Esto explica que Oneguin, el supuesto protagonista, haya de esperar al final de la ópera para ejercer como tal. Igualmente, resulta curioso el paralelismo entre las vivencias de los personajes y del propio compositor. Al igual que Oneguin –pese a constituir Tchaikovsky la antítesis del típico «hombre superfluo» de la literatura rusa del XIX que es Oneguin–, él también recibiría una carta de amor de la que se convertiría en su futura esposa, una ingenua Antonina Miliukova, desembocando estrepitosamente en un matrimonio –por razones obvias– fallido.
Esta es la segunda vez que Christof Loy afronta Eugenio Oneguin, pues ya lo dirigió en La Monnaie de Bruselas en 2001, ambientándolo entonces en la Unión Soviética estalinista. Tal como escribía Alejandro Martínez en su crítica para Platea Magazine, «cuando compras un Loy, tienes un Loy». En efecto, nadie debería escandalizarse a estas alturas: en esta visión del Oneguin, Loy se mantiene absolutamente fiel a sus típicos rasgos distintivos. Ya se sabe lo que hay; esto es, concentrar la escena en un espacio reducido (según afirma Loy en el programa de mano, «para realzar la historia de esas personas que deciden abrirse unas a otras e intentan escapar de su soledad»), impidiendo una completa visibilidad salvo haber adquirido una entrada perfectamente centrada (para colmo, no son pocas las ocasiones en que los personajes han de situarse pegados a las paredes laterales del escenario); la omnipresencia de figurantes lascivos que solo piensan en arrimar cebolleta; el deslumbrante color blanco, y un frío minimalismo. Gélido, mejor dicho, pues la intelectualidad con que Loy retrata a los personajes provoca una sensación de frialdad inusitada, aunque para nada se muestren apáticos: pese a todo, queda meridianamente claro el contraste entre la Tatiana inocente e infantil y el Oneguin engreído y patán del primer acto, y la Tatiana impasible ante un Oneguin, arrepentido y, ahora sí, enamorado, del tercero.
Todo está meticulosamente calculado, sin ápice de posibilidad para la improvisación de un elenco muy implicado con la dramaturgia propuesta por Loy, quien se toma a rajatabla lo de «escenas líricas», con continuas subidas y bajadas de telón aun sin producirse cambio alguno en el escenario. Se plantea una división en dos partes, la primera comprendida por el primer acto y la primera escena del acto segundo, centrada en el personaje de Tatiana; la segunda, del duelo de Lenski y Oneguin en adelante. Toda la primera parte transcurre, sin grandes extravagancias, en un único lugar, lo que parece ser el comedor de la casa de campo de Tatiana. En la segunda parte, ambientada en un espacio blanco y atemporal –supuestamente busca reflejar la mente de Oneguin–, totalmente desnudo, sin ningún elemento más que una puerta, cualquier atisbo de fidelidad al libreto se desvanece de un plumazo. Cuando los dos amigos parecen haberse reconciliado, Lenski se suicida disparándose en la boca. Sin un cambio temporal aparente, la polonesa que da inicio al tercer acto se convierte en una bacanal muy ruidosa que impide escuchar correctamente a la orquesta y que, dicho sea de paso, provocó la protesta de una parte del excesivamente puritano público del día del estreno. Desconozco qué nos querrá decir Loy con estos libidinosos criados, que en esta ocasión ya ni siquiera disciernen entre la carne o pescado, magreándose orgiásticamente por todas las esquinas o bailando agitadamente en círculo. Pareciera que Loy o bien, tal como ya demostró en su Rusalka y Arabella, decide recurrir al sexo injustificado siempre que se queda sin ideas, o bien tiene una obsesión con el tema. A todo esto, el cadáver de Lenski, que aún permanece inerte en el suelo, resucita milagrosamente y, tras abrazarse con un atormentado Oneguin, abandona la sala. Llama también la atención la violencia e intensidad con que Loy retrata el reencuentro entre Oneguin y Tatiana, llevando a los cantantes al extremo, abocados al agotamiento físico.
Desde el punto de vista musical acudimos a un Oneguin, si bien no de antología, estimable. Correcta, aun en ocasiones poco imaginativa, la labor de Gustavo Gimeno, hasta ahora no muy prodigado en el género operístico, y quien reedita el éxito cosechado en El ángel de fuego de 2022. Gimeno, atento a los cantantes, aportó pulso en los pasajes instrumentales como la mazurka, la polonesa o la escocesa, a la par que ofreció una justamente emotiva lectura de la escena de la carta. Algunos problemas puntuales en los metales, especialmente en las trompas, no impidieron apreciar una muy notable mejoría de la orquesta en comparación con la Maria Stuarda del mes pasado, sobre todo en lo que a la sección de cuerda respecta, otrora raquítica y deslavazada, en esta ocasión sonora y compacta, con una clara diferenciación de planos orquestales, así como una perfecta compenetración entre foso y escenario. Si bien tampoco es que sea muy complicado, todo parece indicar que saldremos ganando con la nueva titularidad de la orquesta del Teatro Real.
Magnífico, como de costumbre, el coro, preparado por José Luis Basso. El movimiento frenético y apretuje a los que le somete la puesta en escena no resultaron impedimento alguno para deleitar al público con un “Vayinu, vayinu” y un vals del segundo acto impecables. A destacar también la intervención del tenor solista en el coro interno introductorio.
El Teatro Real parece haber atendido, aun seguro que de manera inconsciente, los deseos de Tchaikovsky, prescindiendo de nombres insignes de la lírica actual. El resultado es, sin embargo, un reparto equilibrado y absolutamente competente. Kristina Mkhitaryan se erigió como gran triunfadora de la noche, tal como atestiguaron los calurosos aplausos cosechados en el extenso monólogo que es la escena de la carta, todo un despliegue de emoción y virtuosismo. El timbre es flexible y cálido, homogéneo en toda la tesitura. Poseedora de una técnica y musicalidad estimables, la soprano rusa encarnó una Tatiana sensual tanto en la vulnerabilidad como en la fortaleza de su personaje, con una presencia escénica apabullante que sin duda favoreció al relato del personaje perfilado por Loy. En suma, una intérprete en ascenso cuya trayectoria merece la pena seguir.
El barítono ucraniano Iurii Samoilov resultó un Oneguin convincente y visceral, de gran intensidad y entrega escénica, relegado a un segundo plano por la producción, aquí en lugar de un hombre de mundo despreocupado, un pringado y patán casi desapercibido en el caos general del primer acto. Su intervención vocal demostró un timbre de cierto atractivo, sólido en el registro medio, aunque a veces tosco. Por su parte, Bogdan Volkov fue un lánguido y frágil Lenski, excelente contraposición al fanfarrón Oneguin, con una voz lírica y aterciopelada pero demasiado ligera que le perjudica en la proyección. Aun así, su interpretación del aria “Kuda, kuda” fue otro de los momentos cumbre de la noche, donde demostró musicalidad y sensibilidad interpretativa, con unos delicados pianissimi.
Nada que objetar a la Olga de la mezzosoprano Victoria Karkacheva, con un desempeño más que correcto en su breve aria del primer acto. Lo mismo se podría decir de la Larina de Katarina Dalayman, siempre solvente en su discreto cometido. Pese a un instrumento inevitablemente mermado aun extraordinariamente bien conservado para sus 84 años de edad, la veterana Elena Zilio hizo gala de un volumen envidiable como la entrañable y cómica nodriza Filípievna. Cumplidor el bajo Maxim Kuzmin-Karavaev, Vodnik en la Rusalka de Loy vista en este teatro en 2020, en su interpretación de Zaretski y del príncipe Gremin (parece que la puesta en escena los concibe como un mismo personaje), revelando en el aria “Lyubvi vsye vozrasti pokorni” un timbre y emisión poco nobles. Todo un lujo la presencia del tenor Juan Sancho como el vecino francés Triquet, transformado en esta producción en un payaso de cumpleaños. Sobre el suficiente capitán de Frederic Jost, al igual que en ocasiones anteriores, y esta vez con aún más razón, me pregunto: ¿qué razón habrá para traer a un intérprete extranjero para interpretar un papel que canta diez segundos?