Con quasi totale certezza, la notte del 21 febbraio rimarrà a lungo nella memoria di coloro che hanno avuto la grande fortuna di assistere al Teatro Real alla miracolosa esumazione di La Merope (1743) di Domingo Terradellas, perpetrata dalla prestigiosa Akademie für Alte Musik Berlin – se mi è concessa una grossolana comparazione, l’equivalente della Filarmonica di Berlino tra le orchestre barocche –, dallo specialista Francesco Corti e da un cast vocale di alto livello. E infatti sono pochissime, se non addirittura quasi inesistenti, le occasioni in cui una squadra di tale caratura si riunisce per la resurrezione di un titolo sconosciuto del patrimonio musicale spagnolo.
Non siamo di fronte a una prima assoluta in tempi moderni, poiché l’opera era già stata presentata (in forma di concerto) in un lontano 1955 a Barcellona, e nel 1979 (in forma scenica) al Teatro de la Zarzuela di Madrid, oltre ad aver visto registrate alcune delle sue arie. Tuttavia, nonostante questi timidi tentativi, La Merope ha seguito la stessa sorte di altri titoli recentemente riscoperti di Terradellas, come Giuseppe riconosciuto o Sesostri, re d’Egitto, senza mai raggiungere una particolare né reale rilevanza. Questo nuovo tentativo di recupero di La Merope – che speriamo si concluda con la dovuta e meritatissima registrazione discografica – fa parte di una tournée internazionale che ha toccato Barcellona (dove è stata eseguita la sera precedente), Madrid, Vienna e Berlino. La decisione del Teatro Real di unirsi a questa tournée, sebbene in forma di concerto, ha permesso al pubblico madrileno di scoprire una partitura geniale, tre ore di grande musica (anziché le due ore e mezza indicate nel programma di sala – o meglio, su un semplice foglio di carta – e ciò nonostante già significativamente alleggerite dall’implacabile passaggio della forbice), caratterizzata da un ritmo vivace (sebbene il primo atto sia una continua successione di furore e bravura, il secondo è più incline alla riflessione), melodie orecchiabili e una scrittura vocale virtuosistica, costellata di terribili salti intervallari.
Catalano di nascita – da qui la discutibile catalanizzazione del suo nome in Domènec, dal momento che mai si fece chiamare così in vita; semmai, l’appellativo più corretto sarebbe Domenico Terradeglias, dato che trascorse la maggior parte della sua breve esistenza in Italia – Terradellas è considerato (ancora oggi relegato in un incomprensibile oblio) una delle figure più importanti della scuola napoletana del XVIII secolo, nonché artefice della transizione dal tardo barocco al classicismo nel genere operistico. Questo successo in vita, unito alla sua morte improvvisa all’età di soli 38 anni e alle oscure circostanze del suo decesso (ucciso con una coltellata e gettato nelle acque del Tevere, con il compositore Niccolò Jommelli tra i sospettati), alimentò una certa leggenda intorno alla sua figura. Sarebbe stata proprio questa Merope – su libretto del 1711 del celebre Apostolo Zeno, già messo in musica da Vivaldi, Jommelli e Traetta e dunque caratterizzata da una struttura in tre atti tipica del barocco italiano – a valergli la nomina a maestro di cappella della Pontificia Reale Basilica di San Giacomo degli Spagnoli a Roma, incarico che mantenne per due anni, prima di intraprendere un lungo viaggio tra Londra, Bruxelles, Parigi, Torino e Venezia, per poi stabilirsi nuovamente a Roma, dove rimase fino alla sua oscura scomparsa.
In questa occasione, la musica di Terradellas è risorta con un lusso privilegiato e a un livello che sfiora l’eccellenza, grazie a un’Akademie für Alte Musik Berlin (acronimata AKAMUS) in stato di grazia dalla prima all’ultima nota, con archi secchi, di suono impeccabile e precisione meccanica, e legni caldi e rotondi. Mi viene in mente solo un appunto: l’impiego di clarini con fori (l’esempio archetipico di ciò che, come direbbe giustamente il musicologo Raúl Angulo, è una riproduzione «fake-simile») e di corni smorzati, che hanno privato l’interpretazione del vigore necessario in tutte le loro sezioni. Francesco Corti, professore alla Schola Cantorum di Basilea e noto soprattutto per le sue collaborazioni con l’ensemble barocco Il Pomo d’Oro, è stato l’altra figura chiave di questo trionfo. A Corti, una vera garanzia in questo repertorio, si deve una lettura energica e vibrante della partitura, ricca di contrasti dinamici e idee originalissime, senza mai sfiorare la monotonia. A tutto ciò si aggiunge un magistrale lavoro sui recitativi, un vero sfoggio di retorica musicale, con un continuo eccellente, fedele servitore della parola.
Per quanto riguarda le voci, ha brillato di luce propria la giovane soprano – finora più avvezza al repertorio belcantistico che a quello barocco – Francesca Pia Vitale, nel ruolo di Epitide, il figlio nascosto di Merope. Il suo sorprendente dominio tecnico e la precisione nella coloratura, negli attacchi e nei salti agli acuti l’hanno resa la trionfatrice indiscussa della serata. Fin dalla sua aria di sortita “Dono d’amica sorte”, ha saputo catturare l’attenzione di un pubblico entusiasta, come ha dimostrato la calorosa ovazione ottenuta con l’aria di bravura “Quando freme altera l’onda”, il vero hit martellante dell’opera. Sempre espressiva, vivendo ogni parola del testo, è stata magnifica anche nell’estesissima e bell’aria da capo “L’augellin che in lacci stretto”; menzione speciale per la cadenza finale dell’aria, accompagnata al clavicembalo da Corti. Una vera rivelazione. Al suo fianco, la rinomata soprano ungherese Emőke Baráth ha dato vita a una Merope impeccabile e di presenza travolgente. Sebbene la sua interpretazione abbia sofferto – ad esempio, nella sua energica aria di presentazione “Dove si vide mai” – qualche alto e basso negli acutissimi estremamente impegnativi scritti da Terradellas, ha offerto una lettura incisiva e appropriata dell’arioso e aria “Ah scellerato, ah traditor! – Un empio m’accusa”, mostrando segni di stanchezza nella sua aria finale “Figlio ascolta!”.
Il tenore baritonale Valerio Contaldo ha reso un Polifonte (il perfido della storia, talmente subdolo da spaventare persino Satana, con una lingua velenosa che non smette mai di scagliare improperi) di grande carattere, con un’emissione robusta e, nonostante qualche difficoltà occasionale, sicurezza nella coloratura, come ha dimostrato nella sua sorta di scena di follia transitoria “Ombre, oh Dei, perchè tornate?” e nella vivace aria “Cada quell’empio“. Paul-Antoine Bénos-Djian ha sfoggiato, nel ruolo di Trasimede, consigliere di Messenia innamorato di Merope, un nobile timbro da contraltista, di notevole proiezione, così come una linea di canto elegante. La soprano sudcoreana Sunhae Im (Argia, innamorata di Epitide) ha portato, con il suo modesto materiale vocale, delicatezza a un ruolo di scarso peso drammatico, mentre il mezzosoprano Margherita Maria Sala (Licisco) si è ben distinta nella sua simpatica aria “Non è ver che’l pianto sia”. Da parte sua, l’interpretazione di Thomas Hobbs, nel ruolo del sicario pentito Anassandro, si è inserita nella tradizione dei tenori barocchi inglesi, caratterizzati da un timbro esile e filamentoso, pur mostrando un forte coinvolgimento nelle sue battute, soprattutto nei recitativi.
Il Teatro Real segna un punto a suo favore con il recupero di questo gioiello del tardo barocco che è La Merope. Comunque, per quante versioni in concerto vengano accolte – meglio di niente, certo – continuerà a persistere un debito nei confronti dell’opera scenica di Terradellas e dei suoi contemporanei spagnoli. È evidente che meriterebbe di essere riproposta molto più spesso e in produzioni sceniche degne di questo nome. Troppo da chiedere, a quanto pare.
Con casi total seguridad, la noche del 21 de febrero permanecerá por mucho tiempo en la memoria de aquellos que tuvimos la gran suerte de presenciar en el Teatro Real la milagrosa exhumación de La Merope (1743) de Domingo Terradellas perpetrada por la prestigiosa Akademie für Alte Musik Berlin –si se me permite hacer una burda comparación, el equivalente a la Filarmónica de Berlín de las orquestas barrocas–, el especialista Francesco Corti y un reparto vocal de alto vuelo. Y es que son muy pocas, por no decir cuasiinexistentes, las ocasiones en que un plantel de categoría tal se reúne para la resurrección de un título desconocido del patrimonio musical español.
No nos encontramos ante un estreno en tiempos modernos en toda regla, pues la obra ya fue presentada (en concierto) en un muy lejano 1955 en Barcelona, y en 1979 (escenificada) en el Teatro de la Zarzuela de Madrid, además de haberse grabado algunas de sus arias en disco. No obstante, pese a estos tímidos intentos, La Merope correría la misma suerte que otros títulos recientemente redescubiertos de Terradellas como Giuseppe riconosciuto o Sesostri, re d’Egitto, sin llegar a alcanzar una especial ni real trascendencia. Esta nueva tentativa de recuperación de La Merope –que esperemos culmine con el debido y muy merecido registro discográfico– forma parte de una gira internacional por Barcelona (donde se interpretó el día anterior), Madrid, Viena y Berlín. La decisión del Teatro Real de sumarse a esta gira, aun en versión de concierto, ha permitido al público madrileño descubrir una partitura genial, tres horas de buena música (en lugar de las dos y media advertidas en el programa de mano –bueno, hoja de papel–, y eso que ya bastante aligeradas por el inclemente paso de la tijera) caracterizada por su ritmo sandunguero (si bien el primer acto es una continua sucesión de furore, bravura y «chunda-chunda», el segundo es más proclive a la reflexión), melodías pegadizas y una escritura vocal virtuosística plagada de terribles saltos interválicos.
Catalán de nacimiento –de ahí la muy cuestionable catalanización de su nombre como Domènec, cuando jamás se hizo llamar de ese modo en vida; en tal caso, el apelativo más correcto sería Domenico Terradeglias, pues la mayor parte de su corta existencia transcurrió en Italia–, Terradellas es habitualmente considerado (aun hoy relegado al más incomprensible letargo) una de las figuras más destacadas de la escuela napolitana del siglo XVIII, así como artífice de la transición del tardobarroco al clasicismo en el género operístico. Este éxito en vida, sumado a su inesperado deceso a la temprana edad de 38 años y a las oscuras circunstancias de su muerte (asesinado de un navajazo y arrollado a las aguas del Tíber, con el compositor Niccolò Jommelli como sospechoso), alimentaron cierta leyenda negra en torno a su figura. Sería precisamente esta Merope –con texto de 1711 del célebre libretista Apostolo Zeno, también musicado por Vivaldi, Jommelli y Traetta y, por ende, una estructura en tres actos típicamente «italobarroca»– la que le valdría el nombramiento como maestro de capilla de la Pontificia Reale Basilica di San Giacomo degli Spagnoli de Roma, puesto que ostentó durante dos años, tras los que emprendió un largo periplo por Londres, Bruselas, París, Turín y Venecia, asentándose de nuevo en Roma, donde permanecería hasta su obscuro fallecimiento.
En esta ocasión, la música de Terradellas ha resucitado con un lujo privilegiado y a un nivel que roza la excelencia, gracias a una Akademie für Alte Musik Berlin (acronimizada como AKAMUS) en estado de gracia desde la primera hasta la última nota, con unas cuerdas secas, de sonido impecable y precisión apabullante, y unas maderas cálidas y redondas. Solamente se me ocurre una pega: el empleo de clarines con agujeros (el ejemplo arquetípico de, como bien diría el musicólogo Raúl Angulo, reproducción «fake-símil») y trompas capadas, que restaron a la interpretación el necesario vigor en todas sus intervenciones. Francesco Corti, profesor en la Schola Cantorum de Basilea y conocido, sobre todo, por sus colaboraciones con el ensemble barroco Il Pomo d’Oro, fue la otra cabeza visible de este triunfo. A Corti, todo un aval en este repertorio, se le debe una lectura enérgica y vibrante de la partitura, plagada de contrastes dinámicos e ideas originalísimas, sin rozar ni un ápice la monotonía. A todo esto cabe sumar un magistral trabajo sobre los recitativos, todo un derroche de retórica musical, con un excelente continuo, fiel siervo de la palabra.
En cuanto a las voces, brilló con luz propia la joven soprano –hasta ahora más prodigada en el repertorio belcantista que barroco– Francesca Pia Vitale, en el papel de Epitide, hijo encubierto de Merope. Su sorprendente dominio técnico y la precisión en la coloratura, ataques y saltos a los agudos la convirtieron en la triunfadora indiscutible de la velada. Desde su aria di sortita “Dono d’amica sorte” supo captar la atención de un público entusiasmado, tal como atestiguó la cálida ovación obtenida con el aria di bravura “Quando freme altera l’onda”, el hit «machacón» absoluto de la ópera. Siempre expresiva, sintiendo cada palabra del texto, también estuvo magnífica en la extensísima y bella aria da capo “L’augellin che in lacci stretto”; especial mención a la cadencia final del aria, con acompañamiento al clave de Corti. Todo un descubrimiento. A su lado, la reconocida soprano húngara Emőke Baráth dio vida a una Merope intachable y de presencia arrolladora. Si bien su interpretación sufrió –por ejemplo, en su enérgica aria de presentación “Dove si vide mai”– de ciertos altibajos en los exigentísimos agudos escritos por Terradellas, ofreció una lectura apropiadamente incisiva del arioso y aria “Ah scellerato, ah traditor! – Un empio m’accusa”, evidenciándose ciertos signos de cansancio en su aria final “Figlio ascolta!”.
El tenor abaritonado Valerio Contaldo compuso un Polifonte (el malérrimo de la historia, tan retorcido que asustaría al propio Satanás, y con una lengua viperina que no para de soltar improperio tras improperio) de gran carácter, con una emisión robusta y, pese a algún apuro puntual, solvencia en la coloratura, tal como demostró en su suerte de «escena de la locura transitoria» “Ombre, oh Dei, perchè tornate?” y en la marchosa aria “Cada quell’empio“. Paul-Antoine Bénos-Djian exhibió como Trasimede, consejero de Mesenia enamorado de Merope, un noble timbre de contratenor, de destacable proyección, así como una línea de canto elegante. La soprano surcoreana Sunhae Im (Argia, enamorada de Epitide) aportó con su modesto material vocal delicadeza a un papel de escaso peso dramático, mientras que la mezzo Margherita Maria Sala (Licisco) cumplió en su simpática aria “Non è ver che’l pianto sia”. Por su parte, la interpretación de Thomas Hobbs, en el rol del sicario arrepentido Anassandro, se enmarcó dentro de la tradición de tenores berruecos ingleses caracterizados por su timbre blanquecino y filiforme, aun muy implicado en sus intervenciones, sobre todo en los recitativos.
El Teatro Real se anota un tanto con la recuperación de esta joya del barroco tardío que es La Merope. Sin embargo, por muchas versiones en concierto de naturaleza «bolística» que se acojan –menos es nada, eso sí–, seguirá persistiendo una deuda con la obra escénica de Terradellas y sus contemporáneos españoles. A la vista está que merecería ser revisitada con mucha más frecuencia, y en producciones escenificadas, como Dios manda. Mucho pedir, parece.