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Teatro Real di Madrid: La Traviata (A. Zaharia, I. Ayón Rivas, A. Ruciński)

  • Teatro Real di Madrid - La traviata - Adela Zaharia - recensione Opera Mundus - ph Javier del Real
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IN SPAGNOLO (originale)

  • Come ben noto, era previsto che questa Traviata arrivasse al Teatro Real come chiusura della stagione 2019/20. Contro ogni previsione, la pandemia fermò tutto, i sipari rimasero abbassati e il mondo intero si confinò tra quattro mura. Ciononostante, il Real fu l’unico teatro lirico del pianeta a rialzarsi quell’estate, offrendo una versione semiscenica, in piena era covid, dell’opera più popolare di tutti i tempi, con griglie dipinte sul palco per garantire il necessario distanziamento tra gli interpreti e una Violetta confinata a morire nella più assoluta solitudine.

    Ora, il teatro madrileno recupera la produzione che il destino ci aveva strappato nel 2020, nientemeno che la mitica Traviata ideata per il Festival di Salisburgo del 2005 dal regista tedesco Willy Decker. Successivamente, l’allestimento ha calcato i palcoscenici di mezzo mondo, diventando una sorta di icona pop operistica, tanto che è ciò che viene in mente a molti appena si pronuncia “Traviata”. È inoltre responsabile del lancio nel firmamento lirico della coppia Netrebko-Villazón, entrata da allora nell’immaginario collettivo come la Violetta e l’Alfredo del XXI secolo.

    Che dire, dunque, della produzione di Decker, vista e rivista? Il concetto scenico di Decker è tanto chiaro quanto inflessibile: un palcoscenico spoglio, grigio, dominato da un enorme orologio che scandisce l’inesorabile passare del tempo… Il suo disegno austero e quasi clinico sostituisce la frivolezza dell’alta società parigina con una freddezza disumanizzata, non molto diversa da quella che regnava nelle funzioni pandemiche del 2020, quando agli interpreti era assolutamente proibito il contatto fisico. L’idea centrale – la morte e il tempo come assi portanti del dramma – funziona ancora a livello concettuale, vent’anni dopo, ma il contenitore scenico, dominato dalla monocromia grigiastra e da un kitsch floreale, mostra segni di logoramento. C’è ben poco margine per l’elemento umano in un ambiente così depurato; forse è per questo che l’emozione non arriva mai del tutto. E infatti, l’impressione generale è stata quella di una serata in cui tutto sembrava al suo posto, ma mancava l’anima.

    La funzione che recensiamo è stata diretta da Francesc Prat, direttore assistente, che ereditava da Henrik Nánási, direttore titolare della produzione, e secondo quanto affermano la maggior parte dei critici – chi scrive queste righe lo verificherà di persona a breve, smentendo o confermando – una lettura poco raffinata dal punto di vista sonoro, povera di dettagli e troppo pesante. Personalmente, la sensazione che mi ha trasmesso la concertazione di Prat è stata di una costante insicurezza, soprattutto nei recitativi, dove si sono percepiti certi problemi nel tagliare il suono o nel raccogliere i cantanti. I suoi tempi, in generale, hanno risposto metronomicamente alla più assoluta convenzione interpretativa dell’opera, cosa senz’altro preferibile rispetto ai tempi letargici presumibilmente imposti (come sembrano indicare alcuni video che circolano in rete, registrati clandestinamente durante rappresentazioni precedenti) da Nánási. Nonostante ciò, Prat è riuscito a estrarre un suono notevole da un’Orchestra Sinfonica di Madrid molto poco ricettiva e in modalità pilota automatico, ricreando, di tanto in tanto e in mezzo a una generalizzata piattezza, atmosfere interessanti, ed esigendo tensione nei momenti di maggiore pathos. Magnifici e precisi, d’altra parte, i musicisti della banda interna in tutte le loro apparizioni.

    Il Coro Intermezzo, sotto la direzione di José Luis Basso e con tutti i suoi membri caratterizzati come uomini, ha offerto ancora una volta una prestazione di alto livello; mai detto fu più appropriato, poiché nel primo atto furono costretti, a causa delle genialità della regia, a cantare dall’alto, compromettendo la loro proiezione e causando degli sfasamenti in “Si ridesta in ciel l’aurora”. Più riuscito è stato il loro intervento nella festa del secondo atto, dove amalgama, intonazione e presenza scenica non hanno lasciato spazio a dubbi, regalandoci un finale d’atto commovente. Né il coro né il suo direttore hanno potuto ricevere il calore del pubblico, non essendo apparsi nei saluti finali. Sembrava che avessero molta fretta di andarsene a casa non appena esaurito il coro interno “Largo a cuadrupede”…

    Questo secondo cast vantava una protagonista ideale, Adela Zaharia, che ha offerto una Violetta impeccabile sia vocalmente che sul piano attoriale, anche se sarebbe stato auspicabile un pizzico di emozione in più da entrambi i lati. Non siamo di fronte a una voce particolarmente singolare o seducente; né la rumena si distingue per fantasia nel suo corretto fraseggio. Tuttavia, possiede altri pregi importanti: il centro è corposo, la coloratura lodevole, e affronta con inappuntabile sicurezza i passaggi più virtuosistici della partitura verdiana. Dopo un inizio un po’ freddo, Zaharia ha incantato il pubblico con un più che dignitoso “È strano – Sempre libera”. Commovente nel duetto con Germont padre e in “Amami, Alfredo”, il suo “Addio, del passato” è stato, di gran lunga, il momento più acclamato della serata.

    Il tenore peruviano Iván Ayón Rivas, impegnato dall’inizio alla fine, ha incarnato un Alfredo Germont impetuoso e ha mostrato un timbro bello. Se si distingue per qualcosa, è precisamente per una zona acuta brillante e pulita, come ha dimostrato in “O mio rimorso”, la pagina di maggiore rilievo per Alfredo (come di consueto, il da capo e il breve passaggio strumentale che lo precede sono stati tagliati senza pietà). Una nota scherzosa, se mi è consentita: per quanto si cercasse di evitare certi pensieri intrusivi, la differenza di statura tra Zaharia e Ayón Rivas non passa, di certo, inosservata. Ovviamente, nulla da recriminare al di là dell’aneddoto, poiché queste cose, purtroppo, non si scelgono.

    In linea con il suo Ezio nell’Attila in forma di concerto precedente, il baritono polacco Artur Ruciński, un Giorgio Germont poco autoritario e contenuto nella sua componente scenica, ha dato nobiltà al suo personaggio e ha dimostrato un’elegante linea di canto, con un “Di Provenza il mar” canoramente impeccabile ma poco emozionante. Naturalmente, anche il da capo della sua bellissima cabaletta “No, non udrai rimproveri” è stato vittima del taglio.

    Buon livello generale, inoltre, tra i personaggi secondari, che hanno assolto con sicurezza ai rispettivi compiti. Particolare menzione per Gemma Coma-Alabert nei panni di Annina, per Karina Demurova come Flora, e per il veterano Giacomo Prestia, sebbene segnato da un certo logoramento vocale, come l’onnipresente dottor Grenvil. Completavano il cast Tomeu Bibiloni come un barone Douphol dalla voce imponente, David Lagares come marchese d’Obigny, Albert Casals come Gastone, Joan Laínez come Giuseppe e Ihor Voievodin come cavalliere.

  • Como es bien sabido, estaba previsto que esta Traviata llegara al Teatro Real como broche de la temporada 2019/20. Contra todo pronóstico, la pandemia lo paró todo, los telones quedaron bajados y el mundo entero se confinó entre cuatro paredes. Aun así, el Real fue el único teatro lírico del planeta en levantar cabeza aquel verano, ofreciendo una versión semiescenificada en plena «era covid» de la ópera más popular de todos los tiempos, con cuadrículas pintadas sobre el escenario para asegurar la pertinente distancia de seguridad entre los intérpretes y una Violetta confinada a morir en la más absoluta soledad.

    Ahora, el coliseo madrileño recupera la producción que el destino nos arrebató en 2020, ni más ni menos que la mítica Traviata ideada para el Festival de Salzburgo de 2005 por el regisseur alemán Willy Decker. Posteriormente, el montaje ha recorrido los escenarios de medio mundo, llegando a convertirse en una suerte de icono pop operístico, hasta el punto de ser lo primero que a muchos se les viene a la cabeza al decir «Traviata». Es, además, responsable de catapultar al estrellato a la dupla operística Netrebko-Villazón, que desde entonces pasó a ocupar el imaginario colectivo como la Violetta y el Alfredo del siglo XXI.

    ¿Qué decir, pues, de la producción de Decker, más vista que el tebeo? El concepto escénico de Decker es tan claro como inflexible: un escenario desnudo, de color gris, presidido por un enorme reloj que marca el inexorable paso del tiempo… Su diseño austero y casi clínico sustituye la frivolidad de la alta sociedad parisina por una frialdad deshumanizada, no muy diferente a la que imperó en las funciones pandémicas de 2020, cuando los intérpretes tenían absolutamente prohibido el contacto físico. La idea central –la muerte y el tiempo como ejes del drama– sigue funcionando veinte años después a nivel conceptual, pero el envoltorio escénico, presidido por la monocromía grisácea y la floripondia kitsch, acusa el desgaste. No hay apenas margen para lo humano en un entorno tan depurado; quizá es por eso que la emoción nunca termina de llegar por completo. Y es que la impresión general fue la de una velada en la que todo parece estar en su sitio, pero, sin embargo, falta el alma.

    La función que reseñamos estuvo dirigida por Francesc Prat, director asistente, quien heredaba de Henrik Nánási, director titular de la producción, y según comentan la mayor parte de críticos –quien escribe estas líneas lo comprobará in situ próximamente, desmintiéndolo o cerciorándolo–, una lectura poco refinada en cuanto al sonido, ayuna en detalles y laxa en el tempo. Personalmente, la sensación que me transmitió la concertación de Prat fue de una inseguridad constante, sobre todo en los recitativos, donde se percibieron ciertos problemas para cortar el sonido o recoger a los cantantes. Sus tempi, en general, respondieron metronómicamente a la más absoluta convención interpretativa de la obra, lo que es sin duda preferible a los letárgicos tempi presumiblemente impuestos (como parecen indicar algunos vídeos que circulan por la red, registrados corsariamente en funciones precedentes) por Nánási. Con todo, Prat logró extraer un notable sonido de una Orquesta Sinfónica de Madrid muy poco receptiva y en piloto automático, recreando, de vez en cuando y entre la planicie generalizada, interesantes atmósferas, y exigiendo tensión en los momentos de mayor patetismo. Magníficos y precisos, por otra parte, los músicos de la banda interna en todas sus intervenciones.

    El Coro Intermezzo, a los mandos de José Luis Basso, y con todos y todas sus miembros caracterizados como hombres, volvió a ofrecer una prestación de altura; nunca mejor dicho, pues en el primer acto se vieron obligados por las genialidades de la puesta en escena a cantar desde las alturas, perjudicando su proyección y dando lugar a desajustes en “Si ridesta in ciel l’aurora”. Más lograda resultó su intervención en la fiesta del segundo acto, donde empaste, afinación y entrega escénica estuvieron fuera de toda duda, brindándonos un sobrecogedor final de acto. Ni el coro ni su director pudieron recibir el calor del público, al no comparecer en los saludos finales. Pareciera que tuvieran mucha prisa por marcharse a casa nada más finiquitar el coro interno “Largo a cuadrupede”…

    Este segundo cast contaba con una idónea protagonista, Adela Zaharia, quien ofreció una Violetta impoluta tanto vocal como actoralmente, si bien hubiera sido deseable un plus de emoción en ambos aspectos. No nos encontramos ante una voz especialmente particular o agraciada; tampoco destaca la rumana por la fantasía en su correcto fraseo. No obstante, cuenta con otras importantes bondades: el centro es carnoso, su coloratura digna de alabanza, y afronta con intachable solvencia los pasajes más pirotécnicos de la partitura verdiana. Tras un comienzo algo frío, Zaharia deleitó al personal con un muy estimable “È strano – Sempre libera”. Conmovedora en su dueto con Germont padre y en el “Amami, Alfredo”, fue su “Addio, del passato” lo más aplaudido y celebrado, con diferencia, de toda la función.

    El tenor peruano Iván Ayón Rivas, entregado de principio a fin, encarnó un Alfredo Germont arrojado e hizo gala de un bello timbre. Si por algo destaca es, concretamente, por una franja aguda brillante y aseada, tal como demostró en el “O mio rimorso”, la página de mayor lucimiento para Alfredo (como de costumbre, el da capo y el breve pasaje instrumental que le precede se vieron sometidos al inclemente paso de la tijera). Un apunte socarrón, si se me permite: por mucho que se quisieran eludir ciertos pensamientos intrusivos, la diferencia de estatura entre Zaharia y Ayón Rivas no pasa, precisamente, desapercibida. Por supuesto, nada que reprochar más allá de la anécdota, pues esas cosas, lamentablemente, no se eligen.

    En línea con su Ezio en el Attila en concierto precedente, el barítono polaco Artur Ruciński, Giorgio Germont poco autoritario y contenido en su vertiente escénica, aportó nobleza a su personaje y demostró una elegante línea de canto, con un “Di Provenza il mar” canoramente irreprochable pero poco emocionante. Cómo no, el da capo de su preciosa cabaletta “No, non udrai rimproveri” también fue víctima de la tijera.

    Buen nivel general, asimismo, entre los personajes secundarios, que cumplieron con solvencia en sus respectivos cometidos. Especial mención para Gemma Coma-Alabert como Annina, para Karina Demurova como Flora, y para el veterano Giacomo Prestia, aun acusado por un cierto desgaste vocal, como el omnipresente doctor Grenvil. Completaron el cartel Tomeu Bibiloni como un barón Douphol de voz imponente, David Lagares como el marqués d’Obigny, Albert Casals como Gastone, Joan Laínez como Giuseppe e Ihor Voievodin como caballero.

1 luglio | La Traviata (A. Zaharia, I. Ayón Rivas, A. Ruciński) | Teatro Real di Madrid

Opera in tre atti

Musica di Giuseppe Verdi (1813–1883)

Libretto di Francesco Maria Piave, basato su La dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio

Prima rappresentazione al Teatro La Fenice di Venezia il 6 marzo 1853

Prima rappresentazione al Teatro Real il 1º febbraio 1855

Produzione della Dutch National Opera & Ballet

CAST

Violetta Valéry Adela Zaharia
Flora Bervoix Karina Demurova
Annina Gemma Coma-Alabert
Alfredo Germont Iván Ayón Rivas
Giorgio Germont Artur Ruciński
Gastone, visconte di Létonières Albert Casals
Il barone Douphol Tomeu Bibiloni
Il marchese d’Obigny David Lagares
Il dottor Grenvil Giacomo Prestia
Giuseppe Joan Laínez
Il cavaliere Ihor Voievodin

Direzione musicale Francesc Prat
Regia Willy Decker
Scene e costumi Wolfgang Gusmann
Costumi Susana Mendoza
Luci Hans Toelstede
Coreografia Athol John Farmer
Ripresa delle scene Thomas Bruner
Direzione del coro José Luis Basso

Coro e Orchestra del Teatro Real

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Mario Varela

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