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Dopo oltre due decenni dalla sua riapertura, il Teatro Real ha finalmente programmato un titolo di Jean-Philippe Rameau, uno dei grandi assenti nelle programmazioni operistiche spagnole. La scelta, come non poteva essere altrimenti, è ricaduta su Les Indes galantes, che è approdata al colosseo madrileno in una versione semiscenica e con un innegabile sapore di evento. E infatti Les Indes galantes costituisce l’esempio archetipico dell’opéra-ballet, un genere che, a metà strada tra la danza di corte e la tragédie lyrique, affascinava la corte di Luigi XV. Ci troviamo di fronte a un’opera particolare, in cui le sue quattro entrées, ambientate in quattro luoghi esotici per l’Europa dell’epoca e distanti tra loro – Turchia, Perù, Persia e America – si susseguono senza una linea narrativa chiara, unite solo dal filo conduttore di un esotismo più immaginato e stereotipato che autentico, e dalla contesa tra due uomini per l’amore di una donna. Lontano dai verismi, qui a prevalere è la varietà di colori, i contrasti timbrici e un’inventiva armonica sorprendente. La musica di Rameau, con i suoi tagli bruschi, le danze che si susseguono come quadri in un arazzo, offre la miglior vetrina per un’immaginazione scenica debordante, sempre che la si voglia mostrare.
In questo caso, ciò che ci è stato venduto come “semiscenificazione coreografica” si è rivelato, in pratica, un “qualcosa” che potremmo definire come “versione da concerto con movimenti di massa”. La tanto proclamata fusione di hip-hop e barocco della coreografa Bintou Dembélé, che non è altro che una “versione da discount” della già mitica produzione di Clément Cogitore per l’Opéra di Parigi, si è ridotta a pochi numeri coreografici di ginnastica ritmica (eseguiti, va detto, in modo eccellente dalla compagnia di danza Structure Rualité), dove la dinamica scenica, più che innovativa, si basa su un continuo ma ben risolto movimento della massa – non solo sul palcoscenico, ma anche nei palchi, nei corridoi e in platea – e sembra un’aggiunta forzata. Come prevedibile, il rapporto con la trama dell’opera è inesistente. Se la proposta si distingue per qualcosa, è per il suo impatto visivo. L’illuminazione è eccessivamente cupa, con l’unica luce prodotta dai tubi fluorescenti a mo’ di spade laser di Star Wars portati da cantanti e ballerini, e dalla “cupola” di luci che sovrasta il palco, capace di creare momenti particolarmente suggestivi, come quello dell’adorazione del sole degli Incas del Perù nella seconda entrée. Cupa, sì, salvo quando i riflettori puntavano sul pubblico; in quei momenti, chi guardava rischiava letteralmente di accecarsi. In ogni caso, il pubblico si è divertito parecchio, come hanno testimoniato gli fragorosi applausi nell’ormai popolare air des sauvages e la calorosa accoglienza riservata a tutto il team artistico nei saluti finali.
Non ha stupito un Leonardo García-Alarcón in stato puro, che ha combinato, come di consueto, effettismo, tempi erratici e contrasti bruschi. Né si è risparmiato un totale coinvolgimento drammaturgico, integrandosi come uno in più nel movimento scenico, girando scalzo per il palco e mostrando una gestualità a tratti fin troppo artificiosa che, a volte, più che trasmettere, sfiorava il gesto plateale; García-Alarcón si diverte un mondo, e si vede che la parata gli piace più di un bambino con un lecca-lecca. Musicalmente parlando, la sua versione, vibrante e vertiginosa, è stata segnata dall’implacabile passo delle forbici, sacrificando circa un’ora di musica; fece particolarmente male l’assenza di vari numeri strumentali, proprio in un’opera in cui l’elemento portante è, appunto, la danza. Detto ciò, García-Alarcón ha saputo iniettare energia alla musica, con un continuo appena udibile ma ben disegnato, e un fraseggio fantasioso che, nei suoi momenti migliori, ha lasciato intravedere tutta la ricchezza e la fantasia della partitura di Rameau; peccato per i seri problemi di ascolto causati dalla decisione di collocare gli strumentisti della sempre coinvolta Cappella Mediterranea dispersi in fondo al palco e separati su tre piattaforme, il che ha compromesso l’impasto e ha offuscato il prodotto finale.
Una menzione a parte per il Chœur de Chambre de Namur, soprattutto per le donne, anch’esse parte della coreografia, le cui esibizioni nella scena del naufragio e nell’invocazione al sole sono state formidabili. Il momento più notevole della serata è stato ancora merito loro, con un’eterea e delicata esecuzione nel bellissimo quartetto “Tendre amour”, trasformando quello che avrebbe potuto essere un semplice momento decorativo in autentica magia.
Quattro cantanti si sono spartiti tutti i personaggi, una soluzione possibile solo grazie ai tagli. Julie Roset, soprano in ascesa dopo il trionfo all’Operalia del 2023, pur con qualche problema di intonazione all’inizio – dovuto, senza dubbio, alla sua posizione nel palco reale, da cui non poteva sentire bene l’orchestra – ha mostrato un materiale attraente e di grande qualità, fresco, giovane e agile. Particolarmente ispirata come Phani, con un commovente “Viens, Hymen”. Lo stesso nella sua aria finale come Zima, “Régnez, plaisirs et jeux”, dove ha mostrato acuti luminosi. Da parte sua, la portoghese Ana Quintans, sicura e coraggiosa, ha sfoggiato la sua voce di soprano omogenea con ardore e buon gusto, regalandoci un “Vaste empire des mers” pieno di temperamento.
Molto convincente anche il basso-baritono Andreas Wolf, che ha colpito per la sua voce e proiezione potenti, come ha dimostrato nella scena di Bellone “La gloire vous appelle”, oltre che per l’eleganza del suo canto. A causa dell’economia del cast, ci siamo trovati davanti a una situazione curiosa nella quarta entrée, dove Adario e Don Alvar aspirano all’amore della schiava Zima; così Wolf ha dovuto interpretare entrambi i pretendenti, contribuendo ancora di più alla confusione narrativa della produzione. L’haute-contre Mathias Vidal, sempre espressivo e generoso in scena (si è anche lanciato a suonare il clavicembalo), ha incarnato l’archetipo del tenore dal timbro biancastro, con qualche difficoltà negli acuti, ma dimostrando sempre grande intenzione.
Pare – nella prima recita, nella seconda non abbiamo avuto il piacere – che García-Alarcón, in uno “speech motivazionale” al termine della funzione, abbia insistito sul debito che Madrid aveva nei confronti del compositore di Digione. E non ha torto: il barocco operistico francese rimane un grande sconosciuto in Spagna, e Rameau, suo epítome, un territorio ancora inesplorato per i nostri teatri e auditorium. Tuttavia, per quanto festoso sia stato l’annuncio, il debito rimane ben lontano dall’essere saldato. Perché questa prima apparizione di Rameau in città, più che un debutto all’altezza della sua importanza, è stato un passo esitante e incompleto, mentre continua ad attendere una produzione autentica e degna del suo genio.
Después de más de dos décadas desde su reapertura, el Teatro Real por fin ha programado un título de Jean-Philippe Rameau, uno de los grande ausente en las programaciones operísticas españolas. La elegida, como no podría ser de otro modo, fue Les Indes galantes, que llegaba al coliseo madrileño en una versión semiescenificada y con un innegable aire de acontecimiento. Y es que Les Indes galantes constituye el ejemplo arquetípico de la opéra-ballet, un género que, a medio camino entre la danza cortesana y la tragédie lyrique, fascinaba a la corte de Luis XV. Nos encontramos ante una obra particular, donde sus cuatro entrées, ambientadas en cuatro enclaves exóticos para la Europa del momento y distantes entre sí –Turquía, Perú, Persia y América–, se suceden sin una línea argumental clara, unidas tan solo por el hilo conductor de un exotismo más imaginado y estereotipado que fidedigno, y el enfrentamiento de dos hombres por el amor de una mujer. Lejos de verismos, lo que aquí prima es la variedad de colores, los contrastes tímbricos y una inventiva armónica sorprendente. La música de Rameau, con sus cortes abruptos, sus danzas que se suceden como cuadros en un tapiz, ofrece el mejor escaparate para la desbordante imaginación escénica, siempre que se la quiera mostrar.
En este caso, lo que se nos vendía como «semiescenificación coreografiada» resultó, en la práctica, en un «algo» que podríamos denominar como «versión de concierto con movimientos de masas». La tan proclamada fusión de hip-hop y barroco de la coreógrafa Bintou Dembélé, que no pasa de ser una «versión de Hacendado» de la ya mítica producción de Clément Cogitore para la Opéra de París, quedó reducida a unos pocos números coreográficos de gimnasia rítmica (excelentemente ejecutados, eso sí, por la compañía de danza Structure Rualité), donde la dinámica escénica que, más que novedosa, basada en un continuo pero bien resuelto movimiento de la masa –no solo por el escenario, sino también los palcos, pasillos y patio de butacas–, parece un añadido con calzador. Cómo no, la relación con el argumento de la ópera es inexistente. Si por algo destaca la propuesta es por su impacto visual. La iluminación es en exceso tenebrosa, con la única luz producida por los tubos fluorescentes a lo espada de Star Wars portadas por cantantes y bailarines, y por la «cúpula» de luces que preside el escenario, que logró momentos especialmente sugestivos como, en la segunda entrée, la adoración al sol de los incas de Perú. Tenebrosa, sí, salvo cuando los focos apuntaban hacia el público; entonces, quien mirase directamente corría el riesgo de quedarse ciego. Sea como fuere, el público disfrutó de lo lindo, tal como manifestaron los atronadores aplausos en el popular air des sauvages y la calurosa acogida con que fue recibido todo el equipo artístico en los saludos finales.
No sorprendió un Leonardo García-Alarcón en estado puro al combinar, como de costumbre, efectismo, tempi erráticos y abruptos contrastes. Tampoco se abstuvo en la total implicación con la dramaturgia, integrado como uno más el movimiento escénico, pululando descalzo por el escenario y mostrando una gestualidad en exceso artificiosa que, en ocasiones, más que transmitir, rozaba el aspaviento; García-Alarcón se lo pasa en grande, y se nota que le gusta la parafernalia más que a un tonto un lápiz. Musicalmente hablando, su versión, vibrante y vertiginosa, estuvo marcada por el inclemente paso de la tijera, desechando cerca de una hora de música; dolió en especial la ausencia de varios números instrumentales, justo cuando nos encontramos ante una obra donde el elemento vertebrador es, precisamente, la danza. Dicho esto, García-Alarcón supo inyectar nervio a la música, con un continuo apenas audible pero bien delineado, y un fraseo imaginativo que, en sus mejores momentos, dejó entrever toda la riqueza y fantasía de la partitura de Rameau; lástima por los serios problemas de audición que provocó la decisión de colocar a los instrumentistas de la siempre entregada Cappella Mediterranea dispersos en el fondo del escenario y separados en tres plataformas, lo que afectó al empaste y desdibujó el producto final.
Mención aparte para el Chœur de Chambre de Namur, especialmente a ellas, parte también de la coreografía, y cuyas intervenciones en la escena del naufragio y la invocación al sol resultaron formidables. El momento más destacable de la velada vino también de su mano, con una etérea y delicada intervención en el bellísimo cuarteto “Tendre amor”, convirtiendo lo que podría haber sido un momento puramente decorativo en auténtica magia.
Cuatro cantantes se repartieron todos los personajes, solución posible solo gracias a los recortes. Julie Roset, soprano en ascenso desde su triunfo en la edición de 2023 de Operalia, aun con algunos problemas de afinación al comienzo –debido, sin duda, a su colocación en el palco real, desde donde no lograría escuchar correctamente a la orquesta–, mostró un material atractivo y de gran calidad, fresco, lozano y ágil. Especialmente inspirada estuvo como Phani, con un estremecedor “Viens, Hymen”. Ídem en el aria final de Zima, “Régnez, plaisirs et jeux”, donde hizo gala de unos agudos luminosos. Por su parte, la portuguesa Ana Quintans, segura y valiente, lució su homogénea voz de soprano con arrojo y buen gusto, obsequiándonos con un temperamental “Vaste empire des mers”.
Muy convincente, asimismo, el bajo-barítono Andreas Wolf, destacando por su voz y proyección poderosas, tal como atestiguó en la escena de Bellone “La gloire vous appelle”, así como por la elegancia de su canto. Debido a la economía en el reparto, acudimos a una curiosa situación en la cuarta entrée, donde Adario y Don Alvar aspiran al amor de la esclava Zima; así, Wolf hubo de encarnar a ambos pretendientes, contribuyendo aún más a la confusión argumental de la producción. El haute-contre Mathias Vidal, siempre expresivo y generoso en la escena (incluso se arranca a tocar el clave), respondió al arquetipo de tenor berrueco blancuzco en cuanto a timbre, muy esforzado en los agudos, pero demostrando siempre una gran intención.
Según parece –en el estreno, en la segunda función no tuvimos el gusto–, García-Alarcón, en un «speech motivacional» al término de la función, insistió en la deuda que Madrid tenía con el compositor de Dijon. Razón no le falta: el barroco operístico francés sigue siendo un gran desconocido en España, y Rameau, su epítome, un territorio inexplorado para nuestros teatros y auditorios. Sin embargo, pese a lo festivo del anuncio, la deuda permanece lejos de haberse saldado. Porque esta llegada de Rameau a la ciudad, más que un estreno digno de su importancia, ha sido un paso vacilante y a medias, mientras sigue esperando una auténtica producción a la altura de su genio.
29 maggio – Les Indes galantes – Teatro Real di Madrid
Opéra-ballet in un prologo e quattro entrées
Musica di Jean-Philippe Rameau (1683-1764)
Libretto di Louis Fuzelier
Prima rappresentazione all’Opéra di Parigi il 23 agosto 1735
Prima rappresentazione al Teatro Real
Versione semiscenica e coreografica
Amour / Phani / Fatime / Zima Julie Roset
Hébé / Émilie / Zaïre / Atalide Ana Quintans
Valère / Don Carlos / Tacmas / Damon Mathias Vidal
Bellone / Osman / Huascar / Ali / Don Alvar Andreas Wolf
Direzione musicale Leonardo García-Alarcón
Regia e coreografia Bintou Dembélé
Costumi Anaïs Durand Munyankindi
Luci Benjamin Nesme
Drammaturgia Simon Attab
Cappella Mediterranea
Chœur de Chambre de Namur
Structure Rualité
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