Checkpoint Charlie e Delacroix, poliziotti antisommossa e satiri danzanti usciti da un idillio pastorale, clavicembali e fucili M-12: l’Andrea Chénier in scena al Teatro Regio di Torino fino al 29 giugno è una dicotomia sospesa tra un passato rococò fatto di minuetti e vezzose parrucche ed un presente oscuro di rivoluzioni, tumulti, sospetti e delazioni.
Il protagonista si muove impacciato ed estraneo in entrambi i contesti, quello antico e quello attuale, che hanno in comune la stessa ipocrisia, la stessa smania di controllo, la stessa violenza. Tutto cambia affinché tutto resti uguale. E se la Musa, che non si può attivare a comando, né tantomeno per capriccio, attira su Chénier le ironiche frecciatine di Maddalena di Coigny, allo stesso modo il suo essere integro, fedele a se stesso e ai propri ideali, innamorato della verità e dell’integrità morale, lo rende scomodo tanto all’accolita incipriata della Contessa quanto alla cricca di Robespierre, dipinta come una dittatura militare in cui occhi e orecchie sono ovunque, e i processi non badano nemmeno a nascondere di essere una farsa.
Fin dall’apertura di sipario, il velo sottile che separa le macerie in proscenio – sulle quali spicca pensosa la figura di Gérard – dalla sala dei ricevimenti della Contessa è segno di un’imminente, dolorosa rovina, destinata non soltanto a distruggere le convenzioni di un mondo dorato, ma gli stessi artefici di tale cambiamento; “[…] son sempre un servo, ho cambiato padrone!” saranno le amarissime parole di Gérard stesso, che ha abbandonato la livrea da servitore per ritrovarsi ugualmente privo di libertà nelle pastoie di una Rivoluzione che, novella figura di Crono, divora i propri figli.
La regia di Giancarlo del Monaco mescola abilmente passato ed attualità senza mai scadere nell’ovvio, accostando i simboli dei periodi più bui della storia dell’umanità e facendone un messaggio universale di denuncia: la violenza, la sopraffazione, le menzogne che mantengono il presunto “ordine sociale” non hanno epoca né colore. E infatti, dal secondo atto in poi, tutto è grigio, polveroso, tetro, e perfino i luminosi ideali rivoluzionari – simboleggiati da una citazione quasi letterale de “La libertà che guida il popolo” di Delacroix – sono ammantati dei toni del nero, dai costumi dei personaggi in scena fino alla bandiera che sventola sulla sommità della piramide umana. E, non a caso, poco dopo questa scena evocativa comparirà, sulla destra, un’altra piramide, molto più simile, però, alla “Zattera della Medusa” di Géricault, cifra visiva della rovina, dell’orrore di una morte lenta e dolorosa, della perdita di speranza dell’umanità.
Il muro, che dal secondo atto in poi campeggia sulla scena, le torrette di guardia e i fari che scrutano la notte, il filo spinato, le camionette che caricano i deportati, ma anche l’immenso schedario simbolo del fatto che ogni uomo è soltanto un numero, un “cittadino” senza nome: tutto è angosciante cifra di una realtà oscura ed opprimente, che ha tinto la libertà di sangue, paura, sospetto. E che costringe il popolo, durante i sommari processi, dietro pesanti sbarre che raccontano una storia in cui di quella libertà è rimasto ben poco.
Le scene firmate da Daniel Bianco, ben sostenute dalle luci di Vladi Spigarolo (bellissimi i “flash” che a fine di ogni quadro trasformano la scena in vividi tableaux vivants!) raccontano con forza ed immediatezza questa storia distopica, in cui i leziosi balletti del primo atto, coreografati da Barbara Staffolani, vengono interrotti dall’irruzione dei poliziotti in tenuta antisommossa, coup de théâtre di grande impatto visivo che chiude il I atto, sancendo la fine sia della visione settecentesca che del mondo dorato – almeno in superficie – che essa rappresenta.
Anche i costumi, di Jesus Ruiz, riflettono molto bene la dicotomia fra un mondo dai toni caramellosi e dalle tinte pastello ed un universo bellico in cui non ci sono né stendardi né simboli, ma soltanto la tetra desolazione del deteriorarsi del mondo sotto i colpi feroci di una non meglio precisata – e dunque universale – Rivoluzione. Gli stessi protagonisti, Chénier e Maddalena, non si distinguono dalla folla grigiovestita che bada bene a non spiccare, ma, al contrario, ad appiattirsi per passare inosservata; soltanto Gérard, nel suo completo militaresco con pastrano di pelle nera, è un misto fra l’Alonzo Harris, il poliziotto corrotto, di Denzel Washington in ”Training Day”, e l’Hitler di Bruno Ganz ne ”La caduta”.
In tutta questa desolazione, soltanto l’amore è la forza motrice del vero cambiamento, l’unico possibile, ovvero quello che investe l’anima dei protagonisti: Maddalena da fatua ragazzina si trasforma in una donna che non teme più nulla, né la violenza, né la morte, che diventa il suo consapevole estremo atto d’amore per unire il proprio destino a quello dell’uomo che ama. Gérard compie un doloroso cammino di consapevolezza e di profonda trasformazione interiore, abbandonando i panni dell’inflessibile capo della Rivoluzione ed acquistando via via una dimensione quasi eroica nell’autodenunciarsi come delatore del proprio antagonista e tentando disperatamente di salvarlo dalla ghigliottina. Chénier è fin dall’inizio convinto che soltanto l’amore possa riscattare l’uomo, e che esso sia motore di un’utopia forse materialmente irrealizzabile, ma che può trovare compimento in un ideale poetico da perseguire fino all’ultimo momento della propria esistenza. Perciò si può affermare con chiarezza che tutta la messa in scena non sia il semplice contorno di una storia d’amore contrastata, bensì il tragico affresco delle più abiette passioni – ed azioni – umane, il cui unico rimedio è la purezza del sentimento.
Un’idea teatrale d’impatto e dalla forza espressiva notevole, sostenuta dal disegno impeccabilmente nitido e luminoso della bacchetta di Andrea Battistoni, alla sua prima prova alla guida dell’Orchestra del Teatro Regio dopo la nomina a Direttore musicale; una lettura chiarissima ed elegantemente teatrale, una concertazione attentissima a sottolineare ogni respiro della narrazione drammatica, dalla potenza delle scene rivoluzionarie più forti all’intimismo dei momenti delicati ed intrisi di sentimento. Gli effetti coloristici dell’arpa sono messi in risalto senza alcuno scadere nel descrittivo; viene dato forma, privato di ogni pesantezza, all’uso delle sezioni dei fiati e delle percussioni che via via assumono importanza sempre maggiore nel tessuto orchestrale “rivoluzionario”; i picchi di tensione armonica che accompagnano l’ascesa finale verso la morte di Chénier e Maddalena vengono risolti con grande lucidità.
Va menzionata la consueta ottima prova del Coro del Teatro Regio, che il prezioso Ulisse Trabacchin traghetta con consapevolezza verso l’ultimo titolo di una stagione di grandi successi.
Per quanto riguarda le voci, impossibile non meravigliarsi della grandezza di Gregory Kunde, settantuno incredibili primavere che si dimenticano di fronte ad una prova di rara eleganza, controllo dei fiati, emissione sicura e ben modulata. L’equilibrio complessivo e l’indomito slancio con il quale raggiunge gli acuti, sorprendentemente vivi e brillanti, fanno dimenticare qualche opacità nel registro centrale e brevi incertezze. Il suo Improvviso “Un dì all’azzurro spazio” è un capolavoro di espressività e vivezza, in cui la voce sale di pari passo con il sentimento. Nel finale, “ Come un bel dì di maggio” commuoverebbe una pietra, con una linea di fraseggio ferma, raffinata, efficace nel rendere lo stridente contrasto fra il momento di serenità perduta, evocato dallo splendore del maggio, e la situazione presente che corre inesorabile verso la morte.
Maria Agresta è una Maddalena di Coigny consapevole, dalla resa scenica viva e puntuale, in un percorso ben disegnato da fanciulla inconsapevole che attraversa la vita con leggerezza un po’ vuota a donna maturata a forza dal dolore e dalle violenze degli uomini. “La mamma morta” è un capolavoro che intreccia la sofferenza alla dignità, con un fraseggio sontuoso che non scivola mai nell’autocompiacimento ma si mantiene lucido e levigato, perfetta espressione di una compostezza e nobiltà d’animo che non si piega mai all’orrore ma lo attraversa a testa alta.
Franco Vassallo incarna splendidamente un Gérard vivissimo, inquieto, tormentato e feroce, con subitanei moti di tenerezza quasi inconsapevole, splendente nella vocalità piena e ben timbrata, lucente negli acuti e ben centrato nei gravi. Un “Nemico della patria” da brividi, cesellato in ogni accento, vigoroso, intenso.
Insomma, un trio di protagonisti importante, ben amalgamato oltre che di grande spessore, fragorosamente salutato dalle ripetute ovazioni del pubblico a scena aperta.
Non sono da meno i comprimari, che si muovono in una compagine varia, mossa e talvolta affollata, già quasi cinematografica, senza mai perdere la specifica rilevanza che ciascuno riveste: Mara Gaudenzi è una Bersi convincente e dal timbro lucente e ben modulato, e Manuela Custer una Madelon inconfondibile, che con vera maestria attoriale nonché voce magnifica congela l’intera scena e convoglia l’attenzione su di sé, in un momento sospeso, drammaturgicamente rilevante quanto espressivamente commovente.
Completano efficacemente il cast Vincenzo Nizzardo (Mathieu), Adriano Gramigni (Roucher), Federica Giansanti (Contessa di Coigny), Nicolò Ceriani (nel doppio ruolo di Fléville e di Fouquier-Tinville), Riccardo Rados (un Incredibile), nonché tre artisti del Regio Ensemble, ovvero Tyler Zimmermann (Dumas), Janusz Nosek (Schmidt), Daniel Umbelino (l’Abate poeta) .
Successo pieno per la Prémière dell’ultimo titolo in cartellone di questa sfavillante Stagione 2024/2025, vero gioiello di un Teatro che brilla di luce intensissima nel panorama operistico internazionale.
(La recensione si riferisce alla Prima di mercoledì 18 giugno 2025)