Prosegue nel segno della cinematografia la soggettiva del Teatro Regio di Torino Manon, Manon, Manon; dopo il realismo poetico DEGLI anni ‘30 e ‘40, la narrazione scelta per la Manon Lescaut di Giacomo Puccini, per la Manon di Jules Massenet è la volta degli anni Sessanta e dell’icona del cinema – francese e non – per eccellenza: Brigitte Bardot.
Se per l’opera pucciniana il regista Arnaud Bernard aveva utilizzato vari frammenti di pellicole, sguardi differenti sulla figura femminile e sull’amore tormentato, qui il fil rouge è unico ed univoco: il film La Vérité di Georges Clouzot, in cui BB interpreta Dominique Marceau, ragazza sfrontatamente ribelle che sfida a colpi di sensualità e anticonformismo il perbenismo borghese.
Manon come Brigitte, dunque; un’altra femme fatale di cui, stavolta, viene svelato l’inesorabile percorso verso la rovina, durante un processo che non si svolge soltanto in tribunale, di fronte ai giudici, ma anche – e soprattutto – negli sguardi di disapprovazione della “gente perbene”, nelle loro accuse, nella sorda e crudele determinazione con cui la ragazza, accusata dell’omicidio dell’ex fidanzato, viene condannata prima ancora che la sentenza sia emessa. Una sentenza che, in realtà, nessuno potrà ascoltare, da che Dominique si toglierà la vita in carcere.
La vicenda di Manon viene letteralmente cucita addosso alla pellicola, nei video di Marcello Alongi: Dominique-Brigitte è Manon, e noi seguiamo il processo a mano a mano che le scene dell’opera si susseguono, in una concatenazione aderentissima e studiata in modo che realtà (scenica) e finzione (cinematografica) si compenetrino. In questo senso si muovono le scene di Alessandro Camera, distinte in due piani paralleli che scivolano l’uno nell’altro; mentre le sequenze del film aprono le scene, che si saldano senza soluzione di continuità alla pellicola, il palcoscenico è letteralmente diviso in due distinti piani, con il tribunale che incombe in alto, scuro come le espressioni di impassibili giudici e giurati. Dunque, l’opera diventa il film, e se il tribunale rievoca il torbido passato di Dominique, in scena vive la propria vita Manon, bellissima, frivola, sfrontata.
Così, il quadro della festa che Massenet aveva ambientato nel quartiere parigino di Cours-la-Reine diventa una sfilata di moda – con annesso shooting! – all’interno di un elegante atélier in cui Manon è una delle modelle; i magnifici costumi di Carla Ricotti (che firma anche quelli delle altre due Manon) sono perfettamente studiati per riprodurre un ambiente di alta moda parigina, in cui la nostra protagonista, che ha rinunciato all’amore per Des Grieux in nome del lusso, si muove con aggraziata disinvoltura.
La tragedia, ovviamente, si nasconde tra le pieghe dell’apparente euforia che anima la scena: Manon scopre che l’innamorato di un tempo – che, evidentemente, non ha mai dimenticato – sta per entrare nel convento di Saint-Sulpice come abate. Decisa ad impedirlo, corre da lui, che non può resistere al fascino della donna, pronta nuovamente a trascinarlo nel vizio e nel gioco d’azzardo. L’Hôtel de Transylvanie, equivoco luogo parigino simbolo di dissolutezza e vizio, è il teatro in cui il dramma si consuma. Il ricco Guillot de Morfontaine, antico spasimante di Manon, ne fa un po’ troppo pesantemente l’oggetto del proprio rinnovato desiderio, ed un brutale episodio di abuso avviene in scena, sotto gli sguardi un po’ divertiti, un po’ sprezzanti dei presenti; Des Grieux interviene, ma Manon viene comunque arrestata come prostituta, non prima di aver freddato Guillot con due colpi di pistola (stesso coup de théâtre utilizzato da Bernard per chiudere il secondo atto della Manon pucciniana).
Il finale sfrutta la coincidenza della morte in carcere di Dominique-Brigitte e di Manon; nessun cambio di scena in quest’opera, nessuna rotta verso le Americhe, soltanto la cupa desolazione di una morte che la nostra protagonista – ormai impossibile scinderne le due declinazioni, operistica e cinematografica – sceglie di darsi, unico rimedio alla rovina in cui è consapevolmente precipitata. Mentre la sequenza del film lascia spazio alla scena, sul letto di morte di Manon un angosciato Des Grieux si precipita, sognando una libertà cui nemmeno lui crede fino in fondo. Manon si recide le vene, ed insieme alla vita che scivola via essa perde qualsiasi aura di colpevolezza, per trasformarsi nell’eroina da romanzo al cui fascino è impossibile resistere
Un’eroina ben personificata da Ekaterina Bakanova, soprano di origini russe ed ucraine, che mostra un autentico talento di attrice oltre ad un timbro vellutato, un’emissione attenta e ben modulata nei centri, sicura negli acuti; oltre al fatto che la Manon di Massenet è un’opéra-comique, che mescola dunque parti cantate e prosa, un allestimento di questo tipo, con un riferimento cinematografico tanto forte, necessita di protagonisti in grado di recitare in modo convincente. Bakanova, oltre ad avere un physique du rôle perfetto per interpretare una Manon citazione vivente di BB, riesce ad infondere nel suo personaggio, nel I atto, l’esitazione e la timidezza dell’apparire di lei, che viaggia per la prima volta, unite ad una sensualità, nascosta nelle pieghe dei cromatismi, che prende gradualmente vita (Je suis encore tout étourdie); evolve, quindi, in un rimpianto doloroso per ciò che non potrà vivere (Voyons, Manon, plus de chimères); nel secondo atto – la scintillante scena di Cours-de-la Reine ambientata nell’atélier d’alta moda – cambia totalmente registro, civettuola, intrigante, salottiera, ma con un tocco di malinconia che traspare e insinua crepe nella facciata di allegria quasi forzata dell’aria brillante Je marche sur tous le chemins e della gavotta, a cui segue l’accorato duetto con Des Grieux padre, Pardon, mais j’étais là près de vous, à deux pas. Gli accenti dell’amore che riaffiora, il rimpianto doloroso, la decisione di correre a strappare Des Grieux dal convento di Saint-Sulpice in cui sta per essere ordinato: l’espressività della protagonista è rispecchiata da una vocalità intensa, sostenuta da un’emissione ferma anche negli acuti, voluttuosa ed insieme accorata nel duetto e nelle intense Oui, je fus cruelle et coupable! e N’est-ce plus ma main del terzo atto. Nel finale, gli ultimi istanti di lei vengono resi in modo commovente e privo di sentimentalismi, con chiarezza di emissione anche nei pianissimo, ed una dolorosa compostezza.
Accanto a lei, veste i panni di un convincente Des Grieux il tenore brasiliano Atalla Ayan, sempre scenicamente ben tratteggiato, con un timbro pregevole, pieno e limpido, ed un buon controllo della voce. Come Bakanova, anche Ayan sa disegnare accenti differenti dando alla propria interpretazione sfumature variegate, dalla sognante commozione del primo atto, quando vede Manon per la prima volta, alla tenerezza dell’amore condiviso e dei progetti per il futuro nel secondo (Je viens de faire un rêve). Ben amalgamati nei duetti, i protagonisti mostrano un’intesa vera e funzionale all’azione drammatica, e, specialmente nel terzo atto a Saint-Sulpice, Ayan dà prova di accenti autenticamente straziati nel Fuyez, douce image! .
Ottimi i comprimari, dal bravissimo Thomas Morris, in grado di infondere al suo Guillot de Morfontaine ora una verve brillante, ora una viscida e disturbante crudeltà, a Roberto Scandiuzzi, Conte Des Grieux dalla voce di basso molto musicale e sempre ben modulata, unita ad una recitazione convincente che lo fa apparire, com’è giusto che sia, un pesce fuor d’acqua in mezzo a glamour e gioco d’azzardo.
Björn Bürger è un apprezzabile Lescaut, freddo e calcolatore quanto basta, e Allen Boxer risolve bene, pur senza particolare entusiasmo, la parte di Monsieur de Brétigny.
Spumeggiante, ben amalgamato e scenicamente perfetto il trio formato da Olivia Doray (Poussette), Marie Kalinine (Javotte) e Lilia Istratii (Rosette), selezionate tra le artiste ospiti. Le ben riuscite parti di contorno sono affidate invece ad alcuni membri del Coro del Teatro Regio, tra cui Alejandro Escobar, Leopoldo Lo Sciuto, Roberto Miani, Andrea Goglio, Junghye Lee, Franco Rizzo e Giovanni Castagliuolo.
Restando in tema Coro, quello del Teatro Regio anche questa volta non delude le aspettative, e non soltanto nella parte vocale: gli artisti realizzano uno spettacolo sicuramente non semplice con efficacia autenticamente cinematografica e grande attenzione ai movimenti di scena così come ai fermo-immagine (sapientemente resi, quasi fotografie in seppia, dalle luci di Fiammetta Baldiserri).
Ultimo, ma sicuramente non in ordine di importanza, Evelino Pidò: la sua lettura di questa Manon è autenticamente elegante, precisa, di spirito molto “francese”; ci restituisce la freschezza e la vivacità della partitura non meno che gli accenti più languidi e gli slanci del più appassionato tormento, senza mai prevaricare sulle voci, ma anzi sostenendole ed intrecciando i tanti motivi orchestrali sottesi a “L’histoire de Manon”, che ne sviluppano l’efficacia drammaturgica e la coerenza musicale.
La realtà musicale di un’opera come questa Manon, che riporta la denominazione di “opéra–comique”, più legata all’immagine del passato che alla vera natura della partitura, è multiforme e variegata; troppe volte ridotta al semplice alternarsi di parti cantate e recitate, l’opéra-comique è un genere composito che riunisce stili differenti, e per il quale Massenet costruisce un impianto personalissimo fatto di contaminazioni e citazioni. Dal neoclassicismo al gusto romantico, dal rococò al più puro virtuosismo, dal recitativo all’arioso, con qualche prestito perfino dal drame–lyrique, che dovrebbe essere quanto mai lontano: la discontinuità è la cifra di un’opera che affronta continui cambi di rotta senza mai perdere la propria identità di fondo. Sì, perché la coesione di un simile lavoro è fondata, essenzialmente, su due aspetti: il primo è quello dei motivi ricorrenti e di reminiscenza, che legano il tessuto musicale e vocale allo svolgimento del dramma, il secondo – ma non meno importante! – è la profonda aderenza della musica alla parola, di cui viene pienamente sostenuto ogni accento, ogni fonema. Massenet, inoltre, fa ampio ricorso alla tecnica del mélodrame, che fonde il parlato con la musica orchestrale, dando alle frasi sostegno perfetto e verità scenica in ogni sfumatura.
Lo spettacolo andato in scena al Teatro Regio di Torino, pur in una lettura così moderna come quella di una pellicola del 1960, ha saputo essere quanto mai fedele a questi intenti, dando vita ad una vicenda attualissima che trova la sua essenza nel pregiudizio, nella difficoltà di accettare una vita fuori dagli schemi imposti dalla società, cogliendo appieno quei contrasti di cui si è detto e che, in Manon, sono cifra ed espressione di una donna impossibile da definire, impossibile da dimenticare.