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Trieste, Teatro G. Verdi: Candide di Leonard Bernstein

  • Candide - Teatro Verdi di Trieste - ph F.Parenzan - recensione Opera Mundus
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Estremamente complesso includere in qualche genere musicale codificato il Candide di Leonard Bernstein. Le sue radici compositive sono infatti molteplici: l’operetta viennese e quella di Gilbert and Sullivan, il musical di Broadway e il ragtime di Scott Joplin, il jazz e i corali liturgici protestanti, i crescendo rossiniani e il pathos di Giacomo Puccini, la verve brillante di Jacques Offenbach e gli intendimenti parodistici di Kurt Weil… Poi, la complicata scelta di comporre un’opera dal racconto filosofico di Voltaire Candide ou l’Optimisme. Leonard Bernstein, in un’intervista: “Perché aver trasformato questo racconto in musica e teatro? Da dove nasce quest’idea? A cosa aspira? (…) Il filosofo settecentesco Gottfried Wilhelm von Leibniz ha affermato che il fatto stesso di credere nell’esistenza di un Creatore sottintende sempre un Creatore buono, incapace di creare qualcosa che non sia “the best of all possible worlds”, il migliore dei mondi possibili. Cioè, tutto ciò che esiste è giusto. Bisogna però ammettere che in questo mondo gli innocenti vengono calpestati con noncuranza, che la maggior parte dei delitti resta impunita e che malattie, guerra e miseria imperversano. (…) Voltaire trovava assurdo questo modo di ragionare. E l’assurdità gli parve tanto più evidente ed insopportabile alla fine di quella giornata del 1755 in cui Lisbona venne sconvolta da un terribile terremoto e un numero spaventoso di persone fu spazzato via, ucciso, bruciato, sterminato dalla furia degli elementi. (…) Scrisse Candide contro ogni tipo di autorità costituita, da quella politica a quella militare e commerciale, ma soprattutto contro una Chiesa colpevole ancora di mandare al rogo gli eretici pensando forse di poter prevenire i terremoti. Come si può realmente credere che tutto sia buono e giusto, quando i segni del male appaiono evidenti dappertutto? (…) La tragedia, in particolare, che ha spinto Lillian Hellman a prendere in considerazione Candide e a chiedermi di utilizzarlo come base per una nuova opera musicale ha un nome preciso: si chiama Maccartismo. Un movimento così simile all’Inquisizione spagnola, il Maccartismo si diffuse nei primi anni Cinquanta negli Stati Uniti, facendo sì che tutti i valori per cui l’America si era distinta finissero schiacciati sotto i tacchi di un senatore del Wisconsin, Joseph McCarthy, e dei suoi sgherri. Fu l’epoca delle liste nere di Hollywood, della censura televisiva, dei troppi licenziamenti, dei suicidi, degli espatri, dei rifiuti a concedere il passaporto a chiunque fosse solo sospettato di avere avuto contatti, magari una sola volta, con un sospetto comunista. Posso testimoniare, sulla mia pelle, che tutto ciò è vero”.

Da questo primo Candide anti-maccartista del 1956 su libretto di Lillian Hellman a quello della Scottish Opera di Glasgow del 1988 con la definitiva revisione di Hugh Wheeler e Stephen Sondheim, furono apportate molte varianti. Il Teatro Verdi di Trieste, in coproduzione con il Comunale di Bologna, ha scelto quest’ultima versione. Mettere in scena il vagabondare di Candide per il mondo è un’impresa registica da far tremare i polsi, visto che la partitura prevede una molteplice successione di luoghi reali e fantastici: il castello di Thunder-ten-Tronckh in Westfalia, un campo di battaglia nei dintorni, Lisbona, Parigi, Cadice, Buenos Aires, una missione gesuitica nella giungla sudamericana, il mitico Eldorado, la colonia olandese del Suriname, una barca in mezzo al mare con cinque re detronizzati, Venezia… E a fine opera, un appezzamento di terra dove il protagonista rigetta ogni dottrina sull’ottimismo del filosofo Leibnitz, con grande convincimento divulgata dal suo precettore Pangloss, preferendo “make our garden grow”: veder fiorire soltanto il suo giardino. Nella memorabile produzione scaligera del 2007, il regista Robert Carsen c’era riuscito splendidamente mediante turbinosi cambi di scena d’ambientazione “United States of America dagli anni ’50 ai ‘90” e quinte a forma di gigantesco schermo televisivo “Volt’Air TV”, con le afflitte vicende di Candide narrate attraverso sapienti e allusive citazioni tra il musical di Broadway e il cinema hollywoodiano, immerse in una vertiginosa Las Vegas aesthetics. Il tutto in un visionario solco storico che va dalla perdita dell’innocenza USA dopo l’assassinio di Kennedy all’epoca della presidenza dei Bush padre e figlio, nel degrado progressivo del vivere civile e politico, nella fine del rispetto per l’ambiente. Ci ha provato in quest’edizione triestina e poi bolognese anche il coreografo Renato Zanella, per questa volta in versione registica e in stretta collaborazione con lo scenografo Mauro Tinti e il costumista Danilo Coppola, ma lo spettacolo nell’insieme non vola molto alto. Tutto lo spazio scenico è un monumentale contenitore delimitato da alti muri bianchissimi e tre grandi lavagne d’ardesia s’aprono a scorrimento nel biancore della parete frontale animandosi in cornici di messinscene molteplici, come straniati e mutevoli palcoscenici sul palcoscenico vero e proprio. La scena è la grande aula della Westfalia Universitas: se il Professor Pangloss è il docente, gli altri interpreti sono gli studenti in rigorosa school uniform e la Old Lady una severa chancellor. La classe dei discenti impara dall’insegnante che la vita è assoluta perfezione (il quartetto Life is absolute perfection) e che vivono nel migliore dei mondi possibili (il quintetto The best of all possibile worlds), facendo a gara su chi è più fortunato e felice. La difficoltà teatrale della continuità drammaturgica dei molti luoghi e dei tragici accadimenti di Candide viene risolto dal regista nell’immaginifico rapporto tra spazio scenico dell’aula universitaria e le cornici che si aprono sullo sfondo. Ad esempio, i genitori d’alto rango di Cunegonde e Maximilian che scacciano il protagonista dal loro castello di Thunder-ten-Tronckh s’esibiscono con abiti settecenteschi in una grottesca scenetta da teatrino delle marionette. Oppure, da queste cornici ammantate con luccicanti drapperie colorate da scampolo Galtrucco, i protagonisti e il coro dilagano nel sottostante proscenio come nella concitazione piuttosto disordinata dell’auto-da-fé oppure nella grande scena dei cinque re spodestati che si presta comunque a una comica e riuscita coreografia. Del resto, di danza Renato Zanella se ne intende bene vista la ragguardevole qualità dei suoi successi come coreografo e forse qualcuno dovrebbe suggerirgli di proseguire solo su questo percorso professionale e artistico.

Merito comunque della riuscita dello spettacolo è la conduzione di Kevin Rhodes. Non capita mai infatti che l’orchestra del teatro triestino lasci un ricordo memorabile delle sue esecuzioni musicali ma stavolta, sotto l’esigente bacchetta del direttore, il risultato c’è parso subito straordinario sin dall’overture: l’impressione che dal golfo mistico si potesse aggiungere qualcosa in più di brillante alle esecuzioni dell’opera. Partendo dall’unico e irripetibile solco tracciato dallo stesso Bernstein con la London Simphony Orchestra nella celebre incisione Deutsche Grammophon del 1991, nell’overture – sempre suonata anche come brano a sé del repertorio sinfonico del grande compositore – s’ascolta il solito mélange di temi musicali che preannunciano le arie e i momenti d’insieme che verranno ascoltati. Dalla breve ma energica fanfara iniziale al tema finale in crescendo rossiniano tratto dall’aria Glitter and be gay, il direttore trasmette subito quella carica trascinante che è giocoforza nell’intima essenza musicale dell’allegro con molto brio della partitura. Coinvolgente essenza musicale che si ritrova nella sapiente restituzione dei ritmi delle danze, dal valzer dissonante alla polka, dalle gavotte al tango, fino a quell’incredibile hornpipe, danza tradizionale scozzese, del brano Bon voyage. Non a caso, i più grandi teatri si contendono Kevin Rhodes nell’accompagnamento del grande repertorio ballettistico classico e, per quanto riguarda l’eleganza con la quale fa scivolare una scena musicale nell’altra, basta ascoltarlo nell’Andante con moto del brano Money, money, money ambientato nel casino di Venezia che viene trasformato nell’Allegretto con grazia del duetto fra Cunegonde e la Old Lady We are women e poi nell’ensemble scintillante e mondano Venice gavotte. Inoltre, sono molti i momenti di sottile humor del Candide che questa direzione orchestrale mette in evidenza, l’ironia di potersi prendere ogni libertà da parte di Leonard Bernstein per ridicolizzare con sapienza compositiva l’abuso della dodecafonia nella musica contemporanea: è la scena dello straniato Andante trattenuto del terzetto Quiet, musicato con variazioni su una serie dodecafonica, quando Cunegonde e la Old Lady si lamentano per tombale noia condotta nel palazzo del Governatore: il compositore già presagiva, da genio qual era, che i suoi Candide e West Side Story sarebbero rimasti nella grande storia della musica e celebrati in futuro nel repertorio dei più importanti teatri. Per contro, il totale oblio attendeva all’implacabile varco dell’ascolto le numerose e assortite “partiture sperimentali” di compositori che ostentavano disprezzo per il lavoro troppo “pop” di Bernstein e che hanno avuto in più l’imperdonabile colpa d’aver afflitto generazioni di pubblico dal Novecento in poi, peraltro con l’implacabile e convinta idea ancor oggi d’esser propugnatori della più pura arte musicale. Oltre all’orchestra, anche il coro del teatro triestino, diretto come sempre straordinariamente da Paolo Longo, era in stato di grazia: una prova d’eccellenza in un buon inglese comprensibile e con finezze interpretative che vanno dal rigore tutto alterezza del canone simil-bachiano all’impeto coinvolgente di certe parti corali dal sapore pucciniano.

Bruno Taddia ha sostenuto la quadruplice e difficile parte di Pangloss/Voltaire/Martin/Cacambo dimostrando una performance d’eccellenza, la migliore fra tutti i protagonisti: presenza scenica carismatica, buona dizione inglese in versione attoriale e bella voce baritonale nel canto hanno modellato un caustico Voltaire mai esente da punte d’urticante cinismo e soprattutto un Pangloss che nel But you can’t execute me; I’m too sick to die! sa elencare con distaccato sarcasmo i molti passaggi di contagio da sifilide, come nel conclusivo Millions of rubles and lire and francs dove temibilissima è la velocità sillabica nell’enunciazione delle parole, degna delle tirate vocalmente acrobatiche dei bassi buffi rossiniani. Straordinario anche nel Words, words, words, words / I have no words / to describe the vanity of life di Martin, l’anti-Pangloss per il quale tutto finisce in polvere e questo che stiamo vivendo è il peggiore fra tutti i mondi possibili: All ends in dust in / this worst of all possible worlds. Se la metafora conclusiva di questo Candide ci induce ad adoperarci per far fiorire il giardino della nostra vita, un ulteriore e arroventato pensiero dall’intonazione agnostica ci giunge da parte di Voltaire-Bernstein, sigillato nelle due ultime e secche parole pronunciate nel finale dal Pangloss di Bruno Taddia: Any question? Un invito a riflettere sui percorsi della vita di ciascuno di noi, e a chiederne il senso: se non è possibile avere alcuna risposta, almeno ci sia concesso il moltiplicarsi delle domande.

Il difficile ruolo di Candide era affidato al tenore Enrico Casari, una presenza scenica un po’ impacciata e una voce dal timbro non particolarmente incantevole ma morbida nelle mezzevoci e svettante con sicurezza in acuto. Nella sua prima meditazione My world is dust now / and all I loved is dead mostra una qualità espressiva pregevole e, nel seguente e sconsolato lamento Cunegonde, is it true?, riesce a esprimere con trasporto l’infausta sorte del personaggio. E, nell’andante Nothing more than this , grazie anche al trasporto orchestrale, scandisce un “tutto qui?” che ha tutto il gusto amaro d’ogni disillusione. Al contempo, sa però identificare il fertile seme della speranza che s’avvera nel successivo duetto con Cunegonda You’ve been a fool and so have I / but come and be my wife e soprattutto nel grande concertato finale con tutti i solisti e il coro Let dreamers dream what worlds they please, una delle più trascinanti e belle pagine composte da Leonard Bernstein.

Tetiana Zhuravel è Cunegonde e, se ha un physique du rôle degno di nota e una rilevante presenza scenica, presenta una precaria dizione inglese e una voce non particolarmente potente, tanto che a momenti l’orchestra finisce per coprirla. Dopo la breve parte del Paris Waltz Scene, il soprano si lancia nell’aria Glitter And Be Gay, divertita reminiscenza della più fiorita cavatina belcantistica e performance vocale fra più difficili in assoluto del repertorio sopranile, non a caso brano singolo presente nel repertorio di tutti i soprani di coloratura che vogliono stupire il pubblico nelle più temibili agilità (e, per chi vuole stupirsi, su YouTube ascolti in questo brano June Anderson diretta dallo stesso Bernstein nella celebrata esecuzione in forma di concerto del Candide, o Nathalie Dessay, oppure ancora Diana Damrau). Aria temibilissima, omaggio alle virtuose del canto sette-ottocentesche, nostalgia struggente d’un trascorso teatro di primedonne assolute e, nell’infinità di citazioni dal patrimonio musicale del passato da parte dei compositori del Novecento, anticipata dall’altro rimando metamusicale nell’Ariadne auf Naxos di Richard Strauss del 1912: la grande scena accessibile solo a poche soprano, Großmächtige Prinzessin’ di Zerbinetta. La Cunegonde di Tetiana Zhuravel affronta bene l’attacco Glitter and be gay / That’s the part I play, un tempo lamentoso di valse lente che accompagna il canto della protagonista con il cuore infranto dal disonore di fille de joie, seguito dall’allegro molto a ritmo di polka And yet of course I rather like to revel. Poi, evidenziandone l’ironia e senza troppi sensi di colpa, con occhio felice verso il pingue gruzzolo accumulato in gioielli e quant’altro, il soprano sbotta con autocompiacimento nel conciso recitativo Enough, enough / Of being basely tearful! ed esplode in una prova tutto sommato passabile dell’incredibile cabaletta, dove la liberatoria e ridanciana sillaba ha! viene scandita in uno spericolato virtuosismo d’agilità che, dopo il “da capo da capogiro”, culmina nell’immancabile sovracuto seguito da una risata. Il tutto coreografato in un’aderente mise in latex nero genere sadomaso, con tanto di danza di ballerine ugualmente abbigliate tutt’attorno.

The Old Lady è Madelyn Renée, una presenza scenica ancora di tutto rispetto ma una voce piuttosto opacizzata con un registro acuto che in alcuni momenti pare piuttosto sfibrato. Nelle vicissitudini surreali del racconto della sua vita, la scena dell’I am easily assimilated potrebbe essere tradotta “con facilità mi sono adattata” ma anche “vengo facilmente assimilata”, visto che durante una carestia ha dovuto farsi tagliare e cannibalicamente mettere in padella una natica: la Renée interpreta la scena in modo spiritoso pur negli accennati limiti vocali, con il coro tutt’attorno in imbranati movimenti coreografici come nel comicissimo My father came from Rovno gubernya / but now I’m here, I’m dancing a tango e il coro che risponde Me muero, me sale una hernia / a long way from Rovno gubernya! Si può tradurre “gubernya” dalla lingua russa come “governatorato” e Rovno, oggi in Ucraina al confine tra Polonia e Bielorussia, era il paese dove viveva il padre di Leonard Bernstein, un ebreo askenazita emigrato negli Stati Uniti a inizi Novecento. Quanto ci sarà della storia familiare del compositore nell’appassionato racconto autobiografico della sradicata Old Lady? Di sicuro lo spaesamento d’ogni migrante e, nel caso dell’emigrazione ebraica così svuotata d’una vera terra d’origine, la parola “assimilated” ripetuta in quest’aria sembra riferirsi all’integrazione in un luogo sconosciuto come perdita di una parte di sé, la recisione d’un qualcosa della propria identità corporea come avviene nell’apparentemente ridicola privazione d’una natica alla Old Lady.

Il ruolo mezzosopranile di Paquette è sostenuto da Aloisa Aisemberg con la fascinosa civetteria vocale d’una vera soubrette e il baritono Felix Kemp alterna i ruoli di Maximilian /il Capitano / lo Zar Ivan con una voce dal bel timbro e una presenza scenica ragguardevole.

Incidente subito rimediato dal bravo tenore costaricano David Astorga: nel ruolo del Governatore, forse a causa d’un paio d’irritanti baffi posticci poco stabili, ha avuto un forte accesso di tosse nel duetto Poets have said / Love is undyng, my love con la Zhuravel. Breve interruzione dello spettacolo con il soprano impalata a centro palco e il direttore che ha risolto il momento d’imbarazzo rivolgendosi prontamente al pubblico con una spiritosa battuta. Voce ampia e dal bel timbro, Astorga si è distinto anche nei ruoli di Vanderdendur e Ragotski.

Bravi anche gli altri cantanti in più ruoli: Saverio Pugliese come Primo Inquisitore / Charles Edward / Padre Bernardo / Primo Gesuita. Yuri Guerra come Secondo Inquisitore / Croupier. Giulio Iermini come Terzo Inquisitore / Re Stanislao. Xin Zhang come Sultano Acmet / Crook.

Inoltre, una buona prova nel complesso dei comprimari: Zhibin Zhang, Hermann Augustus. Dax Velenich, Mercante di cosmetici. Francesco Cortinovis, Alchimista. Armando Badia, Junkman. Gianluca di Canito, Bear Keeper. Rustem Eminov, Dottore.

13 giugno 2025 | Teatro G. Verdi di Trieste | Candide

Musica di Leonard Bernstein

Libretto di Lillian Hellman, Hugh Wheeler, John Latouche, Dorothy Parker, Stephen Sondheim

CAST

Maestro Concertatore e Direttore: KEVIN RHODES

Regia e coreografie: RENATO ZANELLA

Scene: MAURO TINTI

Costumi: DANILO COPPOLA

Maestro del Coro: PAOLO LONGO

Orchestra, Coro e Tecnici della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste

Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste in coproduzione con la Fondazione Teatro Comunale di Bologna

 

Candide: ENRICO CASARI

Maximilian/Capitain/Tsar Ivan: FELIX KEMP

Cunegonde: TETIANA ZHURAVEL

Voltaire/Dott. Pangloss/ Martin/Cacambo: BRUNO TADDIA

The Old Lady: MADELYN RENÉE

The Governor/Vanderdendur/Ragotski: DAVID ASTORGA

Paquette: ALOISA AISEMBERG

Inquisitor I/Charles Edward/Father Bernardo/First Jesuit: SAVERIO PUGLIESE

Inquisitor II/Croupier: YURI GUERRA

Inquisitor III/King Stanislau: GIULIO IERMINI

Sultan Achmet/Crook: XIN ZHANG

Hermann Augustus: ZHIBIN ZHNG

Cosmetic Merchant: DAX VELENICH

Alchemist: FRANCESCO CORTINOVIS

Junkman: ARMANDO BADIA

Bear Keeper: GIANLUCA DI CANITO

Doctor: RUSTEM EMINOV

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Emilio Pappini

Vive e lavora a Milano e Trieste e si occupa di Storia dell’arte. È laureato in Lettere Moderne presso l’Università di Genova e specializzato in Storia del Teatro all’Università Cattolica di Milano con una tesi pubblicata sul rapporto tra opera lirica e televisione: L’opera lirica nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Vita e Pensiero ed.) Ha pubblicato Nascita e metamorfosi del melodramma nella TV italiana (in Le sigle televisive, Eri ed. RAI-TV). Grande appassionato di opera lirica, scaligero da sempre, ha collaborato con la rivista L’Opera e ha presentato a Radio Popolare profili di grandi cantanti del Novecento.

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