In questi tempi di guerra nun se capisce cchiù chi è nu barone e chi è nu cafone” questa la chiosa in napoletano con cui la duchessa di Crakentorp alias Marisa Laurito conclude, prima che si alzi il sipario sulla scena, il prologo incentrato sull’identità e la ricerca di sé stessi che caratterizza la storia di Marie e che è il punto focale attorno a cui il regista Damiano Michieletto costruisce la sua regia.
Dopo esattamente sessant’anni torna al Teatro di San Carlo di Napoli La fille du régiment prima e unica Opéra comique composta da Gaetano Donizetti (su libretto di Jean-François Bayard e Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges) durante la sua permanenza a Parigi la quale, con la sua cifra ironica e il piglio leggero, affronta e analizza una questione tutt’altro che frivola: la ricerca della propria identità e quindi del proprio posto nel mondo. È proprio attorno a questo nodo – che Michieletto fa coincidere con il tema della ricerca della felicità – che si articola una regia attenta, brillante e a tratti anche spiazzante, che non rinuncia agli elementi comici dell’opera ma li esalta con intuizioni talvolta poco ortodosse, eppure sorprendentemente efficaci. A rendere ancora più riuscita questo allestimento – una coproduzione tra il Teatro di San Carlo e la Bayerische Staatsoper – concorrono la solidità della direzione musicale e un cast vocale di ottimo livello. Ma procediamo con ordine.
Partiamo dalla trovata più originale e senz’altro più audace del regista: la trasformazione della duchessa di Crakentorp in una sorta di voce narrante. Questo personaggio secondario, che nell’opera originale appare solo sul finire con parti esclusivamente dialogate e non cantate, viene elevato a figura centrale della narrazione. La duchessa, oltre a precedere l’overture con un prologo, sostituisce i numerosi dialoghi parlati previsti dall’Opéra comique classica (che oggi vengono solitamente tagliati) con monologhi che, oltre a sottolineare più e più volte il già citato concetto dell’identità personale, raccordano le varie sezioni del dramma. Questi interventi, oltre a mantenere intatto il filo narrativo, si rivelano brillanti e a tratti esilaranti, mescolando spesso e volentieri il francese con il napoletano – un omaggio alla città ospitante particolarmente apprezzato dal pubblico. Marisa Laurito, attrice teatrale formatasi nella città partenopea alla scuola di Eduardo De Filippo, interpreta questa parte egregiamente, infondendo al personaggio quegli accenti di farsa napoletana che risultano irresistibilmente spassosi.
Ma la regia (alla quale ha collaborato anche Eleonora Gravagnola come aiuto regista e Mattia Palma in qualità di dramaturg) si distingue anche per l’abilità di Michieletto di caratterizzare e intersecare tra loro due luoghi nettamente antitetici: il bosco (“alloggio” del reggimento) che domina il primo atto e il palazzo della marchesa, ambientazione del secondo. In entrambi i casi la scenografia (curata da Paolo Fantin e Gianluca Cataldo) è essenziale e viene arricchita di volta in volta con l’aggiunta di oggetti: l’asta portabandiera e il bivacco, il fuocherello da campo con annesso treppiede e pentolino nel primo atto; l’arpa e le bambole nel secondo, e il tamburo elemento distintivo della vita militare, suonato da Marie nel primo atto, compare improvvisamente anche nel secondo.
Ma in entrambi gli atti il fulcro della scena, il tocco per così dire “più moderno” di uno spettacolo altrimenti abbastanza tradizionale (soprattutto nei bellissimi e fiabeschi costumi creati da Agostino Cavalca e Camilla Masellis), è rappresentato dalla parete di separazione tra i due luoghi. Nel primo atto, infatti, un ampio fondale raffigurante il bosco innevato viene squarciato dai soldati del reggimento a svelare una Marie triste, dismessi gli abiti militari e indossati quelli da donna del suo rango nel bianco e asettico mondo che le apparterrebbe. Una scena toccante nell’atmosfera altrimenti gaia della commedia, che termina con i soldati che donano a Marie proprio parte di quel fondale su cui è disegnato il bosco: un omaggio per ricordare la vita all’aria aperta che ormai è il suo passato.
Questo riquadro, che nel secondo atto troviamo incorniciato nella grande sala del palazzo della marchesa, diviene quindi il passaggio attraverso il quale i soldati irromperanno nella sala, riportando la vista di quell’ambiente incontaminato e salvando Marie da una vita non sua, impedendo le nozze combinate dalla nobile zia/madre. Il reggimento, i tanti padri che amorevolmente proteggono e difendono la loro figlioccia, è forse il vero protagonista della storia, di certo è il protagonista della scena: quasi onnipresente, esso è mosso sapientemente sul palcoscenico, protagonista di ordinate coreografie militari e di movimenti coreografici (firmati da Thomas Wilhelm e Magdalena Padrosa) più liberi, come quello molto evocativo che si svolge durante l’ouverture, attraverso il quale viene raccontato il ritrovamento della neonata ai piedi di un tronco d’albero. Last but not least, le luci di Alessandro Carletti e Ludovico Gobbi hanno contribuito in modo determinante alla definizione dell’ambientazione, ai momenti di stasi riservati ai monologhi e a illuminare il liberatorio lieto fine, in cui Marie e Tonio si abbracciano finalmente, spogliandosi degli abiti che, in un modo o nell’altro, cercavano di incasellarli in categorie che non sentivano proprie.
Passando al versante musicale, la compagine orchestrale del Teatro di San Carlo ha trovato nella bacchetta di Riccardo Bisatti una guida autorevole e capace di infondere una chiara idea stilistica e interpretativa alla partitura donizettiana fin dalle prime battute. Al netto di qualche piccola sbavatura nell’ouverture, l’orchestra si è distinta per la nitidezza del suono e la chiarezza della melodia. Come già evidenziato per la regia, anche nell’approccio musicale grande enfasi è stata rivolta a sottolineare il contenuto umoristico del soggetto, con una lettura leggera e briosa. Ben riuscita l’interpretazione dei numerosi momenti a ritmo di marcia – che caratterizzano l’ambiente militare del primo atto – volutamente buffi così come volutamente leziosi sono invece i minuetti presenti nella seconda metà dell’opera. Bisatti ha dimostrato notevole sensibilità nel dosare il volume orchestrale, mai invasivo rispetto alle voci dei protagonisti, riuscendo a cedere loro il passo con eleganza e fungendo da perfetto accompagnamento laddove necessario. Apprezzabile inoltre la sua capacità di modellare il fraseggio orchestrale, volgendo con delicatezza agli accenti più lirici e accorati senza mai risultare eccessivo o retorico.
Di ottimo livello nel complesso il cast vocale, a cominciare da Pretty Yende nel ruolo del titolo. Il soprano sudafricano appare estremamente a suo agio nell’interpretare la giovane vivandiera del 21esimo reggimento Marie, non solo mostrando una grande padronanza della partitura, per nulla facile e caratterizzata da un’ampia varietà di registri e da un buon numero di acuti tutti eseguiti con una scintillante coloratura, ma anche nella sua naturalezza nel calcare la scena come vera figlia di militari. Irresistibile nell’inno del reggimento che con foga torna a cantare nel palazzo della marchesa che disperatamente cerca di portarla sulla retta via. Gioiosa nella sua determinazione di voler servire il reparto, a suo agio nel maneggiare fucili, tamburi e pietre focaie, e allo stesso tempo interrogandosi sulla propria natura e su cosa vuole fare da “grande”. Bravissima inoltre nell’interpretare l’indisciplinata studente di canto, stonando volutamente sia cantando sia suonando la finta arpa in scena.
Altrettanto bravo Ruzil Gatin nei panni del giovane tirolese Tonio. Come Marie anche la sua parabola lo ha voluto giovane in cerca di una sua identità che dapprima si configura come aderire al reggimento francese per amore della giovane vivandiera. In questo passaggio particolarmente divertente è stato il suo accostamento a quello del reggimento con scene spiritose nelle quali il tenore russo ha dato prova di scioltezza attoriale. Ma è sul fronte vocale che egli ha dato il meglio di sé: la sua voce timbricamente ricca e cristallina negli acuti domina quasi agevolmente ogni singolo passaggio della partitura. Brillante e potente nella celebre aria “Ah mes amis” (la famigerata aria dei nove do di petto), lirico e centrato emotivamente nella struggente “Pour me rapprocher de Marie”.
Pregevole anche l’interpretazione di Sergio Vitale che ha il physique du role perfetto per vestire i panni del paterno sergente Sulpice. Il suo taglio interpretativo atto a tratteggiare un personaggio burbero ma bonario è stato accompagnato da un controllo e solidità vocale che ne ha dato il giusto spessore.
La petulante Marchesa di Berkenfield è stata ben resa da Sonia Ganassi. Il mezzosoprano ha dato vita a un personaggio simpatico e ha mostrato sicurezza vocale e chiara intonazione, unica pecca una voce non esattamente squillante spesso coperta nei momenti in cui non cantava da sola, in particolare nel finale del primo atto le sue parole sono state completamente sovrastate dal coro.
Il coro diretto da Fabrizio Cassi ha fornito una prova eccellente, in particolare nella sua componente maschile che ha costituito l’altro grande protagonista dello spettacolo: il reggimento. Con l’unica eccezione della prima scena in cui ha mostrato lievi segni di scarsa coesione, esso si è dimostrato per il resto compatto e sicuro. In più ha dato prova di grande presenza scenica essendo chiamato, in questo allestimento, anche a eseguire più d’una coreografia oltre alle movimentate e dirompenti scene di invasione della scena.
A completare più che degnamente il cast Eugenio Di Lieto (Hortensius), Salvatore De Crescenzo (un caporal) e Ivan Lualdi (un paysan).
La prima di questo allestimento in scena fino al 27 maggio ha riscosso un evidente successo, il pubblico (e chi vi scrive) si è divertito molto e molto ha applaudito.