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Teatro Regio di Torino | Hamlet di Ambroise Thomas: essere o non essere se stessi?

Teatro Regio di Torino Hamlet di Ambroise Thomas - Ph Daniele Ratti-Mattia Gaido - recensione di Opera Mundus
Teatro Regio di Torino Hamlet di Ambroise Thomas - Ph Daniele Ratti-Mattia Gaido - recensione di Opera Mundus

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Se il rovello interiore potesse trovare una rappresentazione visiva, essa sarebbe sicuramente quella che è andata in scena al Teatro Regio di Torino per Hamlet di Charles-Louis-Ambroise Thomas. 

Neri pensieri avviluppati su se stessi, libri come stormi di pensieri oscuri, che battevano ossessivamente le ali, vagando tra i pannelli di una scenografia dall’impatto arditamente teatrale: pareti mobili come quinte di un teatro dell’anima in cui ciò che appare alla vista non è mai leggibile in un unico senso. 

Il regista Jacopo Spirei rilegge lo Shakespeare filtrato da Thomas e trova un senso perfetto nel condurci fra le pieghe labirintiche della mente di Hamlet, eterno indeciso, più propenso all’annullamento di sé nel suicidio che all’azione; i performers che rotolano sulla scena sono tormenti della mente, pensieri ossessivi, onde di angoscia che lambiscono una psiche già fragile investita di una responsabilità troppo grande, di un peso troppo ingombrante. Quante volte siamo schiacciati dalle aspettative? Quante volte lasciamo che la nostra strada sia tracciata entro confini che non abbiamo scelto, decisioni che non avremmo mai preso? La grandezza di questa regia sta proprio in questo eterno interrogativo, sospeso in un ambiente in cui tutto sembra sul punto di cadere a pezzi, se già non è perduto… la pazzia di Ofelia è rappresentata in un non-luogo in cui i veli sono acqua, abito da sposa ed insieme memoria di un passato in cui i mobili coperti da lenzuoli sono vestigia lontane di una prospettiva di felicità perduta. La stanza nuziale dei sovrani è pesante di velluti rossi come il sangue, priva di finestre, opprimente come l’ossessione della regina che si vede scoperta. Il cimitero diventa un obitorio, in cui Hamlet incontra la morte come una presenza quasi amica, e i cadaveri ballano insieme agli operatori della morgue, senza irriverenza, ma con un pizzico di ironia macabra. Non ultimi, ma anzi efficacissimi come espediente narrativo, i burattini giganti mossi dai saltimbanchi durante la recita, e che rappresentano Regina, Re ed usurpatore, con i segni della decomposizione, della tristezza e della decadenza tracciati rispettivamente fra le linee del viso di cartapesta. I tormenti di Hamlet non derivano soltanto dalla situazione contingente, ma probabilmente affondano le proprie radici in un passato di aspettative genitoriali, pesanti responsabilità del ruolo istituzionale, traumi infantili mai risolti; il fatto che lo spettro del padre defunto, che lo spinge insistentemente ad una cieca vendetta, sia sempre accompagnato da Hamlet e Ophélie bambini, è uno sguardo sul futuro già scolpito nel passato, che si sostanzia in un’immagine semplice ma potentissima. È il cavallo a dondolo dei due, che, da gioco innocente, ritorna come nemesi nel finale, quando Hamlet, incapace di pugnalare a morte lo zio usurpatore, trafigge se stesso e viene soccorso dallo spettro; non perché voglia salvarlo, ma perché porti a termine la missione ed uccida Claudius! Un amore paterno velato di controllo, che rimanda all’Hamlet bambino… Terribile ed efficace come un pugno nello stomaco la chiusura in cui il principe sale a fatica, ferito e sanguinante, sul cavallo a dondolo della propria infanzia, e viene incoronato Re di Danimarca. È come se il padre gli dicesse: ora che sei diventato ciò che io ho voluto, ora che hai compiuto la vendetta che io ti ho commissionato, soltanto ora, sei di nuovo il mio bambino. Agghiacciante, geniale. 

Gary MacCann legge la scena con un sistema di porte, aperture, scorrevoli, finestre che aprono e chiudono prospettive non soltanto architettoniche, ma anche interiori, facendone squarci sull’animo dei protagonisti, sguardi obliqui sulle ossessioni celate alla vista ma impossibili da nascondere. In questo ritroviamo, in apertura, le soffocanti atmosfere del salone del castello di Elsinore, dal soffitto basso e pesante come un presagio, o i luoghi interiori e desolati: il secondo quadro dell’atto I in cui gettiamo uno sguardo su un tramonto infuocato nei Campi Elisi, all’apparire dello Spettro, o l’atto IV in cui lini candidi celano non soltanto le forme dei mobili ma anche la realtà. 

I costumi di Giada Masi, bellissimi e sospesi tra Gotico ed un Ottocento colorato ed un po’ pop, con qualche strizzata d’occhio all’epoca contemporanea (gli anfibi di Ophélie, che meravigliosa intuizione!), tratteggiano perfettamente le inquietudini di chi li indossa, e che spesso indossa una maschera dai colori vivaci per celare il buio della propria anima. 

Le luci, magistralmente condotte da Fiammetta Baldiserri, lasciano intravedere prospettive inquietanti, tratteggiano contorni spettrali, scoprono ambienti in cui movimenti di taglio prettamente cinematografico muovono la folla festante o i passi lenti del corteo funebre con la stessa forza espressiva. Le coreografie di Ron Howard guidano con grande forza le scene d’insieme, che prendono vita e calore, non senza qualche momento dall’impatto autenticamente spettacolare, da tableau vivant. Merito anche di una compagnia di protagonisti eccezionali, sostenuti da un Coro al solito vocalmente eccellente, ma questa volta ancor più compatto, presente, vivo: Ulisse Trabacchin si conferma una solida guida per una compagine di professionisti di alto livello. 

L’Orchestra del Teatro Regio di Torino segue splendidamente la lettura scintillante, grandiosa ed intellettualistica insieme del direttore Jérémie Rhorer. La fastosità del grand-opéra rivive nei pieni, nell’attenta sensibilità strumentale e nelle sonorità levigate e potenti: non dimentichiamo che non soltanto per numero di atti, per la presenza del convenzionale balletto – qui tagliato, all’inizio del IV atto – ma anche per stile e respiro delle scene d’insieme Hamlet si inserisce ancora, a pieno titolo, nei contorni di questo genere grandioso, tipicamente francese, che sta via via sfumando nell’opéra-lyrique; l’approfondimento psicologico e sentimentale, l’abbandono dei soggetti storici in favore della letteratura e della poetica romantica – tanto più vicine al gusto borghese – si sostanziano qui in una liricità sospesa e corrente, un’armonia ricca di sfumature ed una melodiosità che concorre ad esaltare i suadenti suoni della lingua francese al pari dell’intimismo della materia drammatica. 

Nel ruolo del titolo, il tenore statunitense John Osborn riporta finalmente in scena Hamlet nella tessitura originiamente scritta da Thomas, che dovette riadattare la parte per baritono in funzione del primo protagonista Jean-Baptiste Faure. Elegantissimo, dall’ottima proiezione e dalle linee di canto splendidamente cesellate, Osborn rammenta ad ogni respiro la propria solidissima preparazione belcantistica, unita ad una ricerca sonora che punta alla bellezza della voce, alla purezza del fraseggio, alla scelta attenta del colore, e si conferma valente esemplare della specie in via di estinzione del tenore romantico. L’aria “Ombre chère” mostra una drammaticità sospesa e commossa, con una raffinatezza vocale lucente e ben modellata sulla parola; l’invito al brindisi, “Ô vin, dissipa la tristesse” è scintillante e mostra un’eleganza sapientemente controllata. 

Sara Blanch è un’Ophélie di rara forza espressiva, che nelle movenze sbarazzine, decise e danzanti mi ha ricordato l’attrice Helena Bonham-Carter, che aveva interpretato il ruolo nell’Amleto di Zeffirelli del 1990. Ad una recitazione convincente e ben delineata il soprano spagnolo unisce un virtuosismo vocale di grande pregio, e ci regala una prova entusiasmante durante l’impervia scena della pazzia, banco di prova per ogni interprete di coloratura. Alle fioriture impeccabili, e alle scintillanti note acute Blanch unisce un timbro vellutato e rotondo, ben controllato tecnicamente, che le vale un lunghissimo, entusiastico tributo del pubblico a scena aperta. 

Il mezzosoprano Clémentine Margaine interpreta con efficacia e grazia la Regina di Danimarca, Gertrude, rendendo bene l’imbarazzo e il senso di inquietudine del rapporto con Hamlet, data la sua complicità nell’omicidio del marito, nonché la sua impossibilità di trovare un vero contatto con il figlio. Ad una voce piena e dal bel colore, Margaine unisce un’espressività appassionata ed un fraseggio attento.

Nella parte di Claudius Riccardo Zanellato, basso, dalla vocalità morbida e ben proiettata, imponente nella presenza scenica quanto nel bel tratteggio delle linee di canto. 

Julien Henric è un Laërte convincente ed espressivo, tenero nell’amore per la sorellina Ophélie; Alastair Miles uno Spettro dai tratti austeri e dalla voce ruvida ma ben sostenuta.

Completano efficacemente il cast Nicolò Donini, basso, nel ruolo di Polonius, dalla vocalità duttile e dalla recitazione attenta, Tomislav Lavoie (Horatio), Alexander Marev (Marcellus), Janusz Nosek – artista del Regio Ensemble – e  Maciej Kwaśnikowski rispettivamente Primo e Secondo becchino.

Una prima rappresentazione mondiale, in forma scenica e con il ruolo del titolo nella tessitura originale di tenore, potente ed efficace fin dalle prime note del Preludio; un cammino distopico negli abissi della mente che scorre velocissimo nonostante le quasi quattro ore di spettacolo, una prova salutata con calore dal pubblico del Regio che ha acclamato a gran voce interpreti, orchestra e regia. 

Teatro Regio di Torino | Hamlet | 15 maggio 2025

Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
Musica di Ambroise Thomas
Libretto di Michel Carré e Jules Barbier tratto da William Shakespeare
Prima rappresentazione assoluta: Parigi, Opéra de Paris , 09/03/1868
CAST
Hamlet John Osborn
Ophélie Sara Blanch
Gertrude Clémentine Margaine
Claudius Riccardo Zanellato
Laërte Julien Henric
Lo spettro del defunto re Alastair Miles
Marcellus Alexander Marev
Horatio Tomislav Lavoie
Polonius Nicolò Donini
Primo becchino Janusz Nosek*
Secondo becchino Maciej Kwaśnikowski
Jérémie Rhorer direttore d’orchestra
Jacopo Spirei regia
Gary McCann scene
Giada Masi costumi
Ron Howell coreografia
Fiammetta Baldiserri luci
Lorenzo Lenzi assistente alla regia
Gloria Bolchini assistente alle scene
Francesca Sartorio assistente ai costumi
Ulisse Trabacchin maestro del coro
Orchestra e Coro Teatro Regio Torino
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Ilaria Castellazzi

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